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Ecco perché la Cina inciampa sulla Via della Seta. L’analisi del prof. Pennisi

Un antico proverbio degli indiani del Nord America dice che la velocità non giova a nulla se si corre nella direzione sbagliata. È quello che sta succedendo alla Cina sulla Via della Seta. Ha corso troppo, spesso in direzione sbagliata perché credendo di essere omnisciente, e quasi onnipotente, non ha studiato a fondo i percorsi (ed i loro abitanti). È inciampata: non è ancora chiaro se si è fatta male al ginocchio, se si è slogata una caviglia o se si è addirittura rotto il femore. Non si sa neanche se, nell’inciampare, ha azzoppato qualche partner che gioiosamente, e senza avere studiato abbastanza, si era messo a correre in tandem con quello che fu il Celeste Impero. È comunque una lezione per Pechino e per i suoi sodali. Arriva proprio oggi 22 maggio, giorno in cui si apre il Congresso del Partito comunista cinese.

Di che si tratta? Proprio quando 120 Stati la accusano di avere insabbiato e forse provocato la pandemia (ed è stata annunciata una commissione d’inchiesta sull’Organizzazione Mondiale della Sanità, Oms), quando la sua economia sta sperimentando un brusco rallentamento (come, d’altronde, il Pil mondiale travolto dal Covid-19), alcune Province sono in rivolta e la generazione di coloro nati dopo il 1990 stanno mettendo in discussione la gerontocrazia della Città Proibita, coloro che pensava fossero suoi tributari le fanno, come il personaggio di una celebre commedia di Edoardo De Filippo, uno sberleffo dicendole: Non ti pago!

In breve, la Via della Seta prima di arrivare in Europa attraversa numerosi Stati dell’Asia Centrale e dell’Africa. In effetti, tra i grandi Stati Europei unicamente l’Italia ha firmato un Memorandum of Understanding e lo ha celebrato come se si trattasse del miracolo di San Gennaro, provocando al Bel paese difficoltà che si avvertono ancora con gran parte dell’Unione europea, e con gli Stati Uniti (nostri tradizionali alleati). Nei Paesi in via di sviluppo ha operato con prestiti a medio termine a tassi di interesse relativamente elevati e chiedendo non solo garanzie “sovrane” ai governi, ma anche garanzie “reali” su infrastrutture, terre e perfino corsi d’acqua.

Grande l’attività di Pechino in Sri Lanka, Kyrgyzstan, Pakistan, Malaysia e soprattutto in alcuni Paesi africani. Il debito con la Cina di Djibouti è ormai pari all’80% del Pil del Paese, quello del Kyrgyzstan arriva al 40% del Pil, quello dell’Etiopia al 20% (come è noto, la Cina ha contraccambiato creando una coalizione per fare eleggere il proprio ministro degli Esteri alla carica di direttore generale dell’Oms; è ora sotto inchiesta internazionale). E via discorrendo. Adesso numerosi di questi Stati si rifiutano di continuare a pagare per ammortamenti ed interessi o propongono ristrutturazione del debito a forti sconti. La Malaysia – un terzo della cui popolazione è cinese – ha ottenuto un taglio del 40% del proprio debito con Pechino, dimostrando, carte alla mano, che il tratto della Via della Seta che la attraversa era mal concepito anche dal punto di vista tecnico ed economico (l’attuazione viene sempre effettuata da aziende cinesi, quali la China Communications Construction Company Ltd). E le “garanzie reali”? Dove ci sono enti autonomi, come per il porto di Djibouti, la Cina (o meglio la sua banca di Stato) può tentare di appropriarsene ma su proprietà demaniali ha poco da strillare dato che i “nativi” rispondono anche con il machete. Inoltre, i “debitori” di Pechino si stanno associando ed organizzando: saranno loro ad imporre una “clausola di azione collettiva” che obbligherà la Cina ed accettare un rimborso parziale. Ciò crea non pochi problemi a Pechino anche perché il Congresso americano sta considerano una mozione per bloccare il pagamento di ammortamento ed interesse sui titoli di Stato Usa di cui è piena la banca centrale cinese.

E l’Italia? È bene avere la massima prudenza perché – come dice un altro proverbio – chi va con lo zoppo impara a zoppicare.

Per chi è interessato a questi temi, segnalo il webseminar della Fondazione Fare Futuro alle 15 del 22 maggio. Al seminario, l’ambasciatore Giulio Terzi di Sant’Agata, ex ministro degli Esteri, presenterà un rapporto di un team di esperti sulla Cina.


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