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Il coronavirus infetta la sussidiarietà? Il commento di Rossini (Acli)

Di Roberto Rossini

Il 2 giugno festeggeremo la Repubblica: è la Festa della Repubblica, non dello Stato. In questi mesi di coronavirus lo Stato ha vissuto una sorta di sovraesposizione. Bisogna dire che ha svolto bene il suo mestiere, ha preso in mano la situazione e ha offerto risposte (più o meno convincenti, e comunque le ha date). Il governo non si è sottratto alla grave emergenza. Non sono stati meno importanti gli altri soggetti che danno luogo alla Repubblica: le regioni e i comuni, il terzo settore, il volontariato e l’associazionismo di categoria, la Chiesa, le comunità e – ovviamente – le famiglie. Ognuno ha fatto la propria parte. Eppure sta risultando abbastanza evidente una tendenza ad accentuare il ruolo dello Stato nel prossimo futuro, una sorta di spostamento d’asse verso un maggiore intervento statale, una sorta di nazionalizzazione 2.0. Avviene in economia e nelle imprese – si pensi ad Alitalia – per certi aspetti anche nel welfare e rischia di essere tale anche nelle cose più piccole. Prendiamo la vicenda dei 60mila assistenti civici da impiegare per far rispettare le norme imposte dalla pandemia. È un’ottima idea, non c’è dubbio: ma perché farla gestire allo Stato? Non esistono forse le reti associative? Il terzo settore? Le grandi e piccole associazione che tengono insieme l’Italia? Benissimo il collegamento col Reddito di cittadinanza o di emergenza, con gli ammortizzatori sociali o qualunque altro bonus statale: la disciplina delle regole è corretto sia predisposta dal governo. Ma l’amministrazione e la gestione spetta a chi il volontariato, l’assistenza civica, la competenza sociale la sa esercitare perché da sempre la fa, creando solidarietà attraverso la sussidiarietà.

Esattamente come col Servizio civile universale, dove la norma statale favorisce l’integrazione dei giovani attraverso i soggetti e i progetti del territorio. Per questa ragione basterebbe incrementare il fondo per permettere a più giovani di esserci e partecipare alla “difesa della patria” attraverso un modo ora così necessario: sì, anche così si difende la patria, difendendo la vita delle persone e delle comunità.

Favorire questo impegno attraverso le reti dei soggetti territoriali – dal piccolo gruppo alla grande associazione – significa anche difendere un’idea di democrazia e un’idea di repubblica. Non vorremmo che l’emergenza coronavirus infettasse anche un’idea di repubblica, riducendo il mondo del terzo settore e della società civile ad un impegno caritatevole. Siamo ancora in tempo a intervenire, a fornire strumenti per rafforzare le reti territoriali, che sono le prime a farsi carico delle fragilità. Così festeggeremmo molto bene il 2 giugno, tutta la Costituzione e soprattutto quell’articolo 2 che descrive così bene che repubblica siamo e che saremo.



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