Sabino Cassese non è un editorialista qualunque, per tanti motivi. Quindi, il suo fondo di stamane sul Corriere della sera non è passato sotto silenzio. Ha generato, anzi, negli ambienti politici romani, che alle restrizioni imposte dal virus si sono ormai abituati (anche i rumours del Transatlantico corrono ormai sulle piattaforme digitali), echi e reazioni non destinati certo a spegnersi nelle prossime ore. E hanno sbizzarito gli scenaristi, che in politica sono parte del gioco e le cui parole hanno a valore performativo.
Cassese non è una firma qualunque, certo per la sua prestigiosa carriera accademica e di studioso, certo per essere stato membro della Consulta, ma soprattutto perché è considerato da sempre una “riserva della Repubblica”, una di quelle personalità a cui affidare il governo nei momenti di grande difficoltà. Se a questo si aggiunge l’amicizia e il filo diretto, si dice, che ha col Presidente della Repubblica, il quadro risulta a molti ben chiaro.
Facciamo un passo indietro, a marzo, all’inizio di questa crisi. Mattarella, conscio della gravità della situazione, chiede al presidente del Consiglio di coinvolgere le opposizioni e di essere collegiale quanto più possibile nelle decisioni da prendere. Un appello destinato ad andare a vuoto e, nonostante quanto si potesse immaginare, più per volontà di Conte che non di Salvini, Meloni, Tajani/Berlusconi. Conte continuò a legiferare con i Dpcm, decreti di quanto meno controversa costituzionalità; continuò a esautorare il Parlamento (che in verità si lasciò facilmente esautorare forse per paura di riunirsi in una sede chiusa); nominò una pletora di commissari e membri di task force varie, così tanti in numero da partire depotenziati di fatto.
Alla fine, fra errori e inefficienze, la montagna ha partorito ieri un topolino, non tanto per la quantità delle risorse messe a disposizione almeno sulla carta (per quanto a debito e supportate in previsione dall’Unione Europea) ma per la totale mancanza di un disegno complessivo di rinascita del Paese. Un decretone, come è stato enfaticamente chiamato dallo stesso governo (che quanto a sobrietà comunicativa certo non poco difetta), fondato sulla solita logica italiana dei sussidi a pioggia, i quali se possono in prospettiva placare le difficoltà del momento finiscono per condannarci a un futuro di povertà e miseria.
Non era opportuno approfittare dell’allentamento di certi vincoli, per mettere mano finalmente a una forte politica di investimenti pubblici o di facilitazione di quelli privati? Per deburocatrizzare e delegificare finalmente e sul serio? Probabilmente la cultura anti-impresa e anti-industriale del governo “più a sinistra” della storia repubblicana ha giocato un peso non indifferente. Tanto che l’unico provvedimento “liberale” adottato, il taglio dell’Irap, è avvenuto solo dopo una forte impuntatura degli indiustriali.
Cassese tutto questo lo ha detto senza perifrasi. E soprattutto senza perifrasi ha dato ragione (lo aveva già cominciato a fare timidamente nei giorni scorsi) alle opposizioni anche su un altro punto: la “violazione”, ha usato proprio questo termine, dello stato di diritto. Essendosi Cassese sempre distinto, in passato, per una spietata contrarietà alle forze “populistiche”, quello di questi giorni, e soprattutto di stamattina, è apparso ai più un riposizionamento. Forse, più probabilmente, è un tentativo di cercare di coinvolgere quante più possibili forze politiche su una diversa piattaforma, che potremmo definire di “salvezza nazionale”. In sostanza, quella risposta all’appello di Mattarella che da parte del governo in carica non c’è stata.