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Cosa insegna la dialettica tra Stato e Regioni. Il commento di Ocone

La dialettica politica che si è creata al tempo del virus non è stata solo o tanto fra maggioranza e opposizione, ma anche e soprattutto fra Stato centrale e Regioni. Ove la seconda dialettica non si sovrappone facilmente alla prima perché governatori come Stefano Bonaccini e Vincenzo De Luca, pur appartenendo all’area di centrosinistra, non hanno lesinato critiche al governo ed hanno assunto atteggiamenti assertivi (Bonaccini anche nel suo ruolo di presidente della Conferenza delle Regioni).

Tanto da proporsi, soprattutto Zaia e Bonaccini, come possibili leader nazionali. Dipende ciò solo ed unicamente da un regionalismo spinto, da un titolo V modificato in modo a dir poco confuso e con una devolutiondi poteri dal centro alla periferia mal calcolata? Non credo. Penso piuttosto che quello che ha dato forza ai governatori sia il fatto di essere stati scelti, insieme alla loro maggioranza, dagli elettori.

E quindi di avere avuto un mandato dai cittadini che Giuseppe Conte non ha mai avuto e la sua maggioranza non in modo diretto (anzi i due maggiori partiti che la compongono avevano affermato a chiare lettere, davanti ai propri elettori, che mai si sarebbero alleati l’uno con l’altro). Una sostanziale debolezza politica, rimarcata anche dal fatto che probabilmente la maggioranza parlamente è oggi minoranza nel Paese, di cui l’opposizione parlamentare, un po’ perché tenuta fuori da tutti i giochi un po’ per scarsa capacità tattica e strategica, non ha saputo finora approfittare.

E in questo cuneo invece si sono inseriti alla grande i governatori, che più vicini al territorio e con una solida esperienza amministrativa e gestionale (Zaia, Bonaccini, De Luca, la stessa Jole Santelli sono politici di lunga data), hanno saputo unire capacità gestionale nell’affrontare l’emergenza sanitaria (è il caso soprattutto del Veneto) e concreta vicinanza al teritorio (capendo ad esempio, e mi rifrisco soprattutto a Zaia e Bonaccini, le esigenze delle imprese e quindi la drammaticità dell’emergenza industriale ed economica e non solo di quella sanitaria). Quali insegnamenti, in definitiva, trarre:

1. Le competenze fra Stato ed enti locali vanno riscritte sicuramente, ma non nel senso (che alcuni vorrebbero) del ritorno a un centralismo statalistico che è per sua natura illiberale.

2. Lo Stato ha bisogno non di tecnici e “competenti”, commissari o task force, se non nella stretta misura in cui è necessario. Occorrono piuttosto tanti e veri “competenti in politica”, cioè politici non capitati nei posti di potere quasi per caso (come in questi anni ha voluto l’ideologia dell’ “uno vale uno”) ma che abbiano compiuto una gavetta nelle amministrazioni e fatto vera formazione politica (come avveniva nella Prima Repubblica, per intenderci, attraverso il meccanismo delle scuole di Partito”).

3. La legittimazione democratica attraverso le elezioni è ciò che dà forza e autorevolezza, e anche responsabilità, ai politici. Non bisogna perciò temere le elezioni perché sono esse uno dei momenti, insieme a quello segnalato nel punto 2, in cui si forma e seleziona una classe dirigente.

Che è poi quella che effettivamente ci manca, a livello nazionale, e di cui stiamo andando maledettamente alla ricerca da tempo. Senza di essa, a maggior ragione dopo il Covid, non ci salveremo.


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