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Covid19, il virus colpisce la Cina. Ma non il budget della Difesa…

La crisi da Covid-19 non si fa sentire sul budget della Difesa cinese. In crescita costante da molti anni, la spesa militare di Pechino dovrebbe aumentare di almeno il 3% rispetto al 2019, in linea con le attese sul Pil. La conferma arriverà domani, quando si apriranno i lavori annuali dell’Assemblea nazionale del popolo. Nel frattempo, le anticipazioni confermano quanto esperti e addetti ai lavoro vanno ripetendo da settimane: ci attende un mondo più competitivo e una Cina più assertiva.

IL BUDGET CINESE

L’ultimo report dell’istituto svedese Sipri colloca la Cina al secondo posto tra i Paesi che spendono di più nella Difesa al mondo, subito dietro degli Stati Uniti, prima di India, Arabia Saudita e Russia. Nel 2019 il Dragone avrebbe speso 261 miliardi di dollari, +5,1% rispetto allo scorso anno, +85% in dieci anni. Nel report dello scorso anno, il +5% registrato da Sipri aveva rappresentato l’aumento più contenuto dal 1995 su base annuale per via del legame che il Dragone mantiene tra crescita economica e spesa militare.

LE PREVISIONE VIA PROPAGANDA

Lo stesso legame potrebbe determinare il budget per la Difesa cinese per l’anno in corso, i cui numeri ufficiali (come sempre, con molte incognite) verranno resi noti domani, in occasione della prima sessione annuale dell’Assemblea nazionale del popolo. Il quotidiano del Partito comunista cinese a diffusione globale, Global Times (uno dei principali strumenti della propaganda mondiale del Dragone), prevede per il budget militare 2020 un +3% rispetto allo scorso anno, in linea con le attese sulla crescita del Pil (nonostante il -6,8% del primo trimestre). Alcuni esperti sentiti da Global Times stimano comunque una crescita ancora maggiore, tra il 5 e il 6%. La ragione è da rintracciare nelle “domande aggiuntive di sicurezza nazionale”, cioè nelle esigenze che il Covid-19 avrebbe di fatto aumentato.

IL PIANO DI PECHINO

Lo scorso luglio, il governo di Pechino aveva reso noto il documento intitolato “La Difesa nazionale della Cina nella nuova era”. Una cinquantina di pagine in lingua inglese, proprio far conoscere ambizioni e rivendicare interessi ai competitor, fugando ogni dubbio. L’obiettivo, scritto a chiare lettere, è “avanzare in modo completo nella modernizzazione” di tutti i segmenti delle Forze armate entro il 2035, così da disporre entro il 2050 di uno strumento militare “world-class”.

L’EFFETTO DOMINO

Il Covid-19 non sembra aver impattato sul livello d’ambizione. Anzi, pare aver accentuato la competizione su scala globale, anche in ambito militare. Lo scorso 22 aprile, in piena pandemia, la Marina cinese ha accolto il varo della seconda unità d’assalto anfibio Type 075, confermando dopo la prima (varata a settembre a meno di un anno dal taglio della chiglia) tempi di realizzazione più che rapidi e tornando ad alimentare a Washington le preoccupazioni per un aumento della deterrenza nel Pacifico. Deterrenza che eccede le calde acque d’oriente. Solo un paio di settimane fa, il direttore di Global Times Hu Xijin invitava il governo cinese ad aumentare il numero di testate nucleari fino a mille e di arrivare a una disponibilità di almeno cento DF-41. Si tratta di missili balistici intercontinentali, ritenuti capaci di raggiungere Europa e Stati Uniti in circa 30 minuti trasportando fino a dieci testate indipendenti, convenzionali o nucleari, con lancio da silo o da base mobile.

LA REAZIONE DEL PENTAGONO

Ora, l’annunciato aumento del budget militare cinese non fa che confermare la tesi di chi ritiene, in Occidente, che le esigenze per puntare sulla Difesa siano aumentate con Covid-19. Tra loro c’è Mark Esper, segretario alla Difesa degli Stati Uniti, da tempo a lavoro per preservare il bilancio del Pentagono (chiesti oltre 705 miliardi di dollari per il 2021) da eventuali tagli alla spesa pubblica americana. L’obiettivo è non perdere terreno rispetto ai competitor. “C’è preoccupazione – ha detto di recente – che ci possano essere in futuro bugdet più contenuti per la Difesa; dobbiamo continuare a fare aggiustamente tenendo d’occhio la Cina, e poi la Russia, in qualità di nostri avversari strategici di lungo-termine”. Sulla stessa linea ci sono gli esperti d’oltreoceano e le rappresentanze industriali. Di fondo, vi è la radicata la consapevolezza di un contesto internazionale destinato, dopo il Condi-19, a essere più insicuro e competitivo.

LE MINACCE CHE AUMENTANO

Al di qua dell’Oceano, lo ha spiegato tra gli altri il generale Claudio Graziano, presidente del Comitato militare dell’Unione europea, al webinar organizzato lunedì scorso dalla riviste Formiche e Airpress: “Certamente il contesto geo-strategico internazionale non è, né diventerà, più sicuro di quanto fosse prima della pandemia”. Al contrario, ha detto, sono molti i segnali che “fanno ipotizzare uno scenario di sicurezza in peggioramento”. Finita la pandemia, infatti, “il mondo continuerà a presentare tutto lo spettro delle minacce, da quelle tradizionali di conflitti ad alta intensità, a quelle nuove poste dal terrorismo, dalla diffusa instabilità e dagli attacchi cyber, accompagnate, e probabilmente amplificate, da minacce emergenti e inattese”. Ai responsabili militari, ha aggiunto, ciò impone di “essere più preparati e adeguatamente attrezzati”.

IL PUNTO DI GUERINI

Lo stesso concetto è stato espresso la scorsa settimana di fronte alle commissioni Difesa di Camera e Senato dal ministro Lorenzo Guerini: “In ragione del peggioramento dello scenario di sicurezza internazionale sarà importante mantenere un elevato grado di credibilità dello strumento militare”. In corrispondenza di crisi economiche, ha ricordato, “la tendenza del passato è stata quella di una significativa contrazione degli investimenti”. Qualora si ripetessero tali mosse, “le conseguenze ricadrebbero proprio in prima istanza su quella prontezza e quella resilienza delle Forze armate di cui il Paese ha beneficiato negli ultimi mesi”.


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