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Covid-19, cosa aspettarci dal “nuovo Rinascimento”. Lo spiega il prof. Campi

Di Alessandro Campi

Sono molte le cose che resteranno della pandemia da Covid-19 quando essa sarà sperabilmente finita: il dolore per i morti e per i malati che hanno sofferto, ovviamente; le immagini degli ospedali al collasso e delle grandi metropoli del mondo spettralmente vuote; il ricordo di un’esperienza talmente unica che singolarmente ci accompagnerà sino all’ultimo dei nostri giorni; il timore che una tale emergenza sanitaria possa ripetersi o possa diventare una condizione normale d’allarme; il numero incredibile di post, filmati, meme, messaggi, fotomontaggi e foto, spesso d’una incontenibile vitalità, che sono circolati attraverso la rete e i social media come antidoto all’isolamento e ricerca d’una socialità almeno virtuale; le insulsaggini ascoltate da politici che spesso hanno navigato a vista, tenuti per mano da virologi ed epidemiologici che anch’essi, si è scoperto strada facendo, ne sapevano poco di più di quel che stava accadendo; e infine la quantità anch’essa enorme di pensieri, idee, proposte e scritti d’ogni tipo (articoli, saggi, libri) che essa ha prodotto nel giro di pochi mesi (e molti altri ne verranno nel prossimo futuro).

Quest’ultimo è stato uno sforzo di intelligenza collettiva favorito naturalmente dalla condizione di cattività nella quale si sono d’improvviso trovate milioni di persone, che nella scrittura hanno visto, al tempo stesso, una preziosa valvola di sfogo, un’occasione irripetibile per misurarsi con qualcosa di drammaticamente importante, un modo per lasciare al prossimo una testimonianza diretta o almeno un contributo autenticamente personale e, per quelli che praticano la scrittura e la riflessione come mestiere, un dovere civile autoassegnato.

Uno sforzo favorito anche dall’eccezionalità effettiva della situazione, senza eguali nella storia recente del mondo. In pochi giorni, le società del benessere sono piombate, dalla relativa tranquillità in cui vivevano, giusto le fibrillazioni d’una perdurante instabilità economica e d’un quadro mondiale divenuto cronicamente caotico da quando è terminata la Guerra fredda, nell’incubo della morte di massa, mostrando altresì fragilità organizzative e psicologiche che non sapevano di avere (sapevamo invece quanto esse fossero squilibrate e diseguali al loro interno, anche quelle sviluppate).

I governi hanno dovuto stravolgere tutte le loro agende e priorità, mettendo la salute pubblica in cima ad ogni preoccupazione (a pericoloso detrimento, in alcuni casi, delle libertà personali e delle attività economiche ordinarie). Certezze radicate e abitudini di vita consolidate sono venute meno con impressionante velocità: la stessa con la quale ci si è abituati, ad esempio, a restare chiusi in casa e a obbedire senza troppi mugugni al potere costituito.

Si è repentinamente prodotto un cambio nello spazio sociale e in quello mentale: da un lato, le strade e le città talmente prive di vita e movimento da disegnare paesaggi pittorici metafisici o scenari filmici post-apocalittici; dall’altro una condizione di isolamento, solitudine e angoscia del tutto inconsueta per persone abituate a muoversi liberamente per il mondo e ad aggregarsi coi loro simili nei modi più diversi e senza restrizioni (ma forse erano già psichicamente isolati, staccati dal mondo, i frequentatori in massa dei centri commerciali o degli altri templi di una socialità spesso solo apparente e dunque la pandemia ha solo reso manifesta questa condizione tipica d’una post-modernità in certe sue manifestazioni alienante).

Dinnanzi a quest’inedita situazione, il mantra più recitato, frutto della velocità e intensità dello shock, è divenuto ben presto quello condensato nella formula: “nulla più sarà come prima”. Quella “normalità” alla quale dovremmo tornare una volta finita l’onda dei contagi non è forse la causa di ciò che è successo, seppure diversamente individuata sulla base delle diverse scale di valori e preferenze ideologiche?

C’è dunque chi ha dato la colpa all’inquinamento e alle devastazioni ambientali, chi ai nostri eccessi consumistici, chi ai tagli alla spesa sanitaria operati dagli Stati, chi alla cultura dell’individualismo e dell’egoismo, chi ai politici-demagoghi in odore di populismo, chi a un potere capace solo di mentire e incapace di proteggere i cittadini, chi alla rapacità del capitalismo finanziario, chi a una scienza troppo sicura di sé, chi alle metropoli eccessivamente congestionate, chi alle cattive abitudini alimentari…

Il virus, si è detto, ci offre l’occasione per liberarci da queste brutte eredità del passato, per ripensare il mondo e renderlo migliore. Possiamo lasciarcela sfuggire? Ecco allora il febbrile impegno con cui ci si è dedicati a descrivere e raccontare il “mondo nuovo” che ci aspetta.

In effetti, nel giro di poche settimane sono successe molte cose importanti e sulla carta foriere d’un domani più a misura dei nostri sogni, anche se talvolta orientati ad un “perfettismo” ingenuo e persino pericoloso se preso troppo sul serio. Lo sfoggio universale di buoni sentimenti collettivi ha fatto comprendere quanto gli uomini – sino al giorno prima occupati da altre priorità: gli affari, i soldi, la carriera, il lavoro – abbiano bisogno del prossimo e quanto sia facile, soprattutto nei momenti del bisogno condiviso, far scattare la solidarietà tra sconosciuti.

Tra gli Stati, quando si è capito che la pandemia rischiava di non risparmiare nessuno, si è scatenata una corsa virtuosa a fornirsi aiuti e a scambiarsi materiali e informazioni, a conferma che siamo abitatori di uno spazio comune al di là d’ogni possibile differenza di lingua o costume o regime politico. Abbiamo inoltre, costretti dagli eventi, fatto un salto in un futuro tecnologico nel quale, in fondo, già vivevamo ma senza averne piena consapevolezza e senza dunque sfruttarlo a dovere. Come nel caso della didattica a distanza e del lavoro agile, divenuti comportamenti scontati e normali sotto la spinta dell’emergenza e grazie all’esplosione delle piattaforme on line: utili per insegnare e svolgere attività burocratiche e d’ufficio, ma anche per discutere in gruppo o incontrare gli amici.

In pochi giorni il mondo è diventato, seppure per segmenti e fasce assai diversificate, un’immensa community Web all’interno della quale, durante milioni di videoincontri, ci si è scambiati di tutto: gli auguri di compleanno, le ricette della nonna, le impressioni sull’ultimo libro letto o film visto, le apprensioni sulla pandemia e i progetti sul dopo-emergenza, le letture dei classici, i compiti per la scuola, le foto ritrovate nei vecchi armadi, i documenti di lavoro.

Chi aveva, sino al giorno prima del confinamento obbligatorio deciso dai governi uno dopo l’altro, usato o anche solo sentito parlare di Zoom, Microsoft Teams o Google Meet? Eppure ne siamo immediatamente diventati utenti assidui ed esperti, tanto che ci si chiede come potremo farne a meno.
Come tutti gli eventi complessi o traumatici, anche stavolta il loro ricordo postumo è facile che venga affidato ad alcune istantanee d’alto impatto simbolico ed emotivo.

Le immagini di papa Francesco che celebra messa da solo, in una piazza San Pietro buia, desolata e battuta dalla pioggia, sono state trasmesse ovunque. A qualcuno è parso come il ritiro dal mondo della fede e delle religioni organizzate: un fatto talmente inedito e grandioso da acuire lo smarrimento universale, non solo quello dei credenti. Ma in quelle immagini, in effetti sconcertanti, molto hanno invece visto un messaggio di speranza, un segnale potente.

In un mondo toccato in profondità dalla secolarizzazione, reso quasi spiritualmente sterile da quest’ultima, peraltro nemmeno capace di garantire un tranquillo pluralismo delle credenze improntato ad una laica e illuministica tolleranza, la figura solitaria del pontefice che invoca salvezza per tutti ha suggerito pensieri meno sconfortanti: da un lato, il riscatto della cultura religiosa su quella secolare (che di fronte al dramma ultimo della morte non riesce nemmeno ad essere consolatoria); dall’altro un invito alla comunanza e condivisione, rivolto al mondo e da quest’ultimo largamente recepito, al di là delle diversità di fedi e credenze.

Senza volerlo, insomma, il virus ci ha messi lungo una strada per certi versi salvifica, che nei prossimi anni ci vedrà impegnati nella riprogettazione degli spazi urbani e di quelli domestici, nella definizione di reti sociali improntate allo scambio e all’altruismo, nella ricerca di una maggiore integrazione tra sistemi economici, nella creazione di una nuova cultura del lavoro come anche di un diverso modo di organizzare l’insegnamento a ogni livello. Grandi sfide, ma ineludibili, che ci consentiranno di avere più tempo libero, un rapporto meno passivo con la tecnologia di cui disponiamo, più slancio creativo, più coscienza del destino comune che ci unisce in quanto esseri umani.

Ci aspetta dunque (perché lo vogliamo e perché ne siamo capaci) un “nuovo Rinascimento”, spirituale e materiale, come quello che seguì le terribili ondate pestilenziali che, verso la metà del Trecento, afflissero gran parte del mondo allora conosciuto: una prospettiva esaltante sul piano collettivo, meno ovviamente su quello individuale, visto che se anche stavolta ci vorranno cento anni per una piena “rinascenza” nessuno di noi ne godrà direttamente. E sempre ammesso che simile paragoni storici abbiano un senso o una qualche plausibilità storica: per dirne una, i flagelli sanitari del passato si accompagnavano sempre a spaventose carestie alimentari, mentre stavolta sulle tavole dei cittadini, anche nel pieno dei contagi, non è mai mancato nulla.

Sembra una differenza da poco, ma è invece la differenza tra la fame reale e il fantasma della fame: retaggio inconscio d’un passato dal quale, a livello di immaginario collettivo, ancora non ci siamo liberati. Il che tra l’altro spiega la corsa in questi mesi a rileggere i classici che hanno scritto nelle loro opere della peste, della malaria, delle pandemie che periodicamente hanno sconvolto l’umanità (comprese quelle inventate): Tucidide, Lucrezio, Boccaccio, Manzoni, Defoe, Shelley, London, Camus, Jono… Si sono cercate le similitudini e i parallelismi, ma soprattutto le differenze: quel che si ripete del passato, ma soprattutto quel che per fortuna non si ripeterà più, ad esempio a causa dei progressi nel campo medico-sanitario.

Ma c’è, come sempre quando si immagina il futuro, il rovescio della medaglia, ovvero la possibilità di capovolgere la prospettiva (dunque le previsioni) in modo netto. Cosa che spesso avviene più per ragioni temperamentali, che per diversità di calcolo o di angolo visuale. A quelli convinti che “nulla più sarà come prima”, si sono dunque opposti quelli convinti che il mondo e l’umanità potrebbero restare, passata la pandemia, quello che in fondo sono sempre stati: specie se a mettere la parola fine a questa crisi sarà, banalmente, un vaccino fatto il quale niente avremo più da temere.

Nessuno nega che la storia cambi, progredisca e vada avanti, anche in funzione delle sfide che essa stessa pone agli uomini che la fanno, ma questo non vuol dire che da una catastrofe si produca per forza un salto morale o un cambio d’epoca radicale. Senza tornare indietro alla peste che colpì Atene a partire dal 430 a. C. o a quella londinese del 1655, basta ricordare l’epidemia di spagnola che falcidiò il mondo nei due anni seguenti la fine della Grande guerra. Ne nacque forse un’umanità migliore e più consapevole, ne derivò una stagione di benessere e progresso?

È assai dubbio, anzi del tutto falso. Politicamente, molte dittature sorsero nel mondo nei due decenni successivi. Economicamente, essa fu seguita dal crollo finanziario del 1929. Non è facile capire, guardando al passato, quando e come da un Grande Male possa scaturire un Grande Bene. Può accadere, ma non sempre. Un atteggiamento dubbioso e disincantato verso il futuro che ci aspetta al quale, dinnanzi all’avanzare nel mondo del Covid-19, hanno dato corpo in molti. Tra gli altri, alla sua maniera brutale, lo scrittore francese Michel Houellebecq, allorché ha sentenziato: «Non ci risveglieremo, dopo il confinamento, in un mondo nuovo: sarà lo stesso, un po’ peggio» […].

 

Estratto dal libro (scaricabile gratuitamente) “Dopo. Come la pandemia può cambiare la politica, l’economia, la comunicazione e le relazioni internazionali” (Rubbettino).

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