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Così Di Maio sfodera il jolly a stelle e strisce (e punzecchia il Pd sulla Cina)

A fine 2015 il Financial Times raccontava il Movimento 5 Stelle e la volontà della creatura di Beppe Grillo di “essere presa sul serio”. Ma per farlo sceglieva di intervistare non il comico né tantomeno Gianroberto Casaleggio o il figlio Davide, bensì l’allora vicepresidente della Camera Luigi Di Maio. Quella paginata del quotidiano finanziario di Londra fu di fatto il battesimo della leadership dell’attuale ministro degli Esteri anche per quanto riguarda il suo atteggiamento atlantico. Ecco cosa scriveva il Financial Times evidenziando gli sforzi di Di Maio per smussare alcuni angoli di Grillo: “Dopo gli attacchi terroristici di Parigi, per esempio, ha negato di volere l’uscita dell’Italia dalla Nato — un’idea sostenuta da Grillo”.

Una visione atlantista che l’attuale ministro degli Esteri ha mantenuto anche durante la campagna elettorale del 2018. Basti rileggere una lunga intervista rilasciata al Washington Post dal titolo roboante “Il millennial che potrebbe diventare il prossimo leader italiano”. Quella chiacchierata, in cui Di Maio assicurava “non abbiamo intenzione di isolare l’Italia”, è parte di un tour statunitense nel novembre del 2017. “Non è un caso che abbia scelto gli Stati Uniti” ci tiene subito a far sapere Luigi Di Maio, raccontava allora La Stampa: “Non è un caso che abbia scelto proprio questa meta come primo viaggio da candidato premier del M5S”. E, continuava il quotidiano torinese, “in questa trasvolata atlantica non c’è soltanto lo scontato desiderio di accreditarsi e cercare una vetrina, ma c’è anche voglia di fare chiarezza, di ridisegnare il volto internazionale del M5S. Perché nell’anarchia in cui spesso è stata lasciata, non si capisce bene la direzione verso cui tende la politica estera, rimasta in balia di troppe ombre”.

E infatti, sia durante il governo gialloverde sia durante quello giallorosso, Di Maio si è trovato a dover fare i conti con un movimento liquido e non ha potuto ignorare le posizioni di Alessandro Di Battista e tanti altri eletti ma anche con la passione cinese di Davide Casaleggio e di Beppe Grillo, oltre che con il suo “sacro blog”.

E se a questo si aggiunge la capacità di fascinazione che il Partito comunista cinese riesce a esercitare all’estero il gioco è fatto. Prima nel governo gialloverde, poi in quello giallorosso, il Movimento 5 Stelle è apparso come un solido interlocutore di Pechino, per usare un eufemismo. 

Ora però la bandierina del fuorigioco si è alzata in modo evitabile dopo la vicenda degli “aiuti”, dove indiscutibilmente l’entusiasmo per le mascherine cinesi è stato sensazionale. Così Di Maio sta provando a raddrizzare la rotta, anche perché le sparate di Di Battista sull’ineluttabile dominio cinese, non potevano non mettere in imbarazzo il ministro degli Esteri di un Paese Nato e G7. 

Di qui, l’intervista di oggi al Corriere della Sera in cui ribadisce la sua visione atlantista (“La stessa commessa vinta da Fincantieri nei giorni scorsi è la testimonianza delle fortissime relazioni con Washington, di cui siamo orgogliosi”) e non risparmia una puntura di spillo diretta agli alleati pro tempore ricordando come sia stato proprio il Partito democratico di Matteo Renzi prima e Paolo Gentiloni poi a spalancare le porte delle aziende italiane alla Cina, 5G incluso. “Si ricorda quando all’Italia è toccata la presidenza del G7?”, ha domandato Di Maio all’intervistatore. “Glielo dico io: nel 2017. Noi eravamo all’opposizione. E già allora, pur nel ruolo di Paese presidente del G7, l’Italia prese parte alla prima edizione del forum sulla Belt and Road”. 

Nell’intervista odierna emergono gli sforzi del ministro di mantenere una posizione di equilibrio (definendo la Cina un “partner”) ma l’esercizio, già piuttosto complicato in generale, lo è soprattutto in questa fase in cui la crisi diplomatica tra Pechino e Washington esplosa assieme al coronavirus non consente troppi spazi grigi. Ma comunque una cosa è certa: sia gli analisti di politica estera sia quelli di politica interna concordano sul fatto che l’unica possibilità per arginare la deriva cinese del Movimento passa per Luigi Di Maio.

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