Skip to main content

L’eredità di Giovanni Paolo II? Non avere mai paura. Firmato Giulio Andreotti

Nella storia – non solo nella storia della Chiesa – a Giovanni Paolo II verrà riconosciuto un ruolo decisivo per il tramonto e la sconfitta del dominio bolscevico dell’Est. Non a caso Mosca aveva cercato di indurre i governanti di Varsavia a vietare il viaggio del nuovo Papa, che non poteva comunque non avere un grande impatto popolare. Ma era un consiglio più che velleitario, solo che si pensi alla massiccia partecipazione anche dei leader a Roma al momento dell’inatteso insediamento del loro connazionale.

Gli inviti al coraggio e l’ammonimento a non aver mai paura erano stati senza dubbio determinanti nello sviluppo del movimento di solidarietà popolare promosso da Lech Walesa. Non a caso da allora si smise di considerare illegittimo l’interclassismo, più o meno confuso, prima, con il capitalismo. Ne sappiamo qualcosa anche noi italiani e, mi si consenta, specialmente noi democristiani.

Quando in Polonia avvenne la sterzata autoritaria del generale Jaruzelski, e vi fu per reazione l’isolamento internazionale della Polonia stessa, il Papa seguì personalmente le vicende con grande intensità.
Tra le mie carte cui tengo maggiormente, conservo la lettera – datata 5 gennaio 2005 – con cui Giovanni Paolo II rispose in modo per me lusinghiero agli auguri natalizi: «… Le rinnovo il mio riconoscente apprezzamento per il costante impegno nel promuovere la pacifica convivenza tra i popoli, nella linea delle indicazioni offerte dal Magistero della Chiesa».

Tra tante espressioni polemiche ricorrenti oggi sui rapporti tra Stato e Chiesa in Italia, questa sottolineatura delle frequenti fasi di coincidenza mi sembra molto importante. In particolare penso retrospettivamente all’appoggio dato da Pio XII all’Alleanza atlantica, invitando a superare le istintive contrarietà dei cattolici nei confronti di patti militari. Penso alla convergenza tra Paolo VI e Moro nell’associare la Santa Sede in prima persona alla politica di sicurezza e cooperazione europea. Ma penso anche alla crisi del 1984 cui ho fatto prima cenno.
Il ministro degli Esteri tedesco Genscher aveva manifestato la disponibilità a rompere l’isolamento della Polonia, ma chiedeva che nel programma della visita fosse inserito un omaggio alla tomba di don Popieluszko, il sacerdote il cui assassinio la vox populiaddebitava alla polizia comunista. La risposta fu negativa e il viaggio sfumò. Riprodussi anche io (ero agli Esteri) la stessa clausola, con l’aggiunta, ancora più impegnativa, di incontrare anche i dirigenti di Solidarnosc.

La risposta polacca fu positiva e questo trattamento privilegiato al governo italiano, rispetto ai tedeschi, lo si dovette certamente alla volontà di far arrivare chiarimenti e messaggi al Santo Padre (Jaruzelski me lo disse esplicitamente).

L’omaggio al povero sacerdote ucciso potei farlo con una messa ad hoc, alla presenza di tanti fedeli, in un tripudio di fiori e di candele. Subito dopo nell’ambasciata d’Italia incontrai i dirigenti clandestini di Solidarnosc, che videro nell’evento un segnale governativo di distensione.

Il presidente Jaruzelski mi ricevette trattenendomi per parecchie ore. Molti anni dopo, in circostanze tanto cambiate, ho avuto (e ho tuttora) occasione di incontrarlo nelle riunioni del Forum ideato da Gorbaciov e abbiamo potuto constatare l’esattezza dell’informazione di allora. Con lo “stato d’emergenza” aveva bloccato la già decisa invasione sovietica; rivendicava questo a merito patriottico come polacco. Ma c’era di più. Stava facendo pulizia all’interno del Partito comunista, augurando che la polvere di cui aveva liberato il Partito non fosse raccolta dagli uomini di Walesa, inquinando il Movimento.

In quanto all’assassinio di don Popieluszko, le responsabilità erano state accertate e si sarebbe celebrato rapidamente il processo con le ovvie conseguenze punitive.

Il nostro ambasciatore mi spiegò il significato di un accenno del presidente alla assurdità di considerarlo un filosovietico, dopo quello che era stato fatto alla sua famiglia (sembra dispersa in Siberia).
Immediatamente prima e subito dopo il viaggio a Varsavia ebbi il privilegio di essere invitato a cena dal Santo Padre per poter parlare senza i limiti delle udienze protocollari.

In un evento internazionale, invece, la posizione italiana non coincise con quella vaticana. Fermamente contrario a tutte le guerre, il Papa non approvò la Guerra del Golfo con la quale si restituì al Kuwait la sovranità del territorio, invaso dagli iracheni. In verità il Vangelo rimprovera il re che non scende a patti con un invasore molto più forte di lui, ma non contempla il divieto di difendere il territorio. Penso che il Papa ritenesse che fossero ancora necessari e possibili altri tentativi verso Saddam Hussein. Fu comunque molto lieto quando seppe che erano state respinte le proposte punitive. Con precisione potei assicurarlo della non accoglienza delle tesi di chi progettava invasioni punitive in territorio iracheno.
Per esattezza cronistorica riporto l’espressione dell’allora capo di Stato maggiore Usa generale Colin Powell: «I miei uomini su territorio iracheno non metteranno piede. Sarebbe una trappola. Dovevamo liberare il Kuwait. Punto e basta».

Merita almeno un cenno un altro capitolo del pontificato di Giovanni Paolo II: la grande apertura verso gli ebrei nel quadro di un auspicato dialogo tra le religioni.
In questa cornice va inquadrata la modifica al Concordato del 1929 che ha rimosso anche quella rigida interpretazione secondo cui in Roma vi erano forti limitazioni al pluralismo religioso. Di qui delicate questioni con i protestanti, anche personalmente con il segretario di Stato americano Forster Dulles, fautore di una presenza romana della Church of Christ.

Formidabile è stata l’espansione diplomatica della Santa Sede dopo il 1978, con l’instaurazione di rapporti anche con risvolti delicati (Stato d’Israele, Libia, Autorità Palestinese).

Restano ancora due lacune: la Cina e l’Arabia Saudita, ma ambedue questi Paesi, in morte di Giovanni Paolo II, hanno “partecipato” al lutto universale. La strada – tuttora difficile – non è stata comunque abbandonata.
In un mondo che cambia (basti pensare alle emigrazioni di islamici in aree non islamiche) molti problemi si complicano e si appesantiscono. La fermezza nei principi deve accompagnarsi a una grande disponibilità al dialogo. E dove erano di ostacolo macigni storici di incomprensione, anche conflittuale, papa Wojtyla ha coraggiosamente aperto brecce per l’intesa, non avendo paura anche di riscrivere pagine di storia temporale della Chiesa.
Non avere mai paura. È la grande eredità che ha lasciato.

(Articolo pubblicato su 30 giorni, il mensile diretto da Giulio Andreotti)


×

Iscriviti alla newsletter