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Geopolitica delle riaperture. Ecco a chi conviene riaprire (e a chi no)

Di Marco Vicenzino

Man mano che numerosi Paesi emergono gradualmente da quasi due mesi di quarantena per il Covid-19, molti cittadini faranno fatica a passare dal limbo del blocco alla “nuova” normalità e alla realtà che la attende.  Le necessità politiche, la pressione pubblica e la sopravvivenza economica richiedono l’avvio di un processo di riapertura.

Tuttavia, la brutale realtà è che senza un vaccino o trattamenti efficaci, il coronavirus rimane una minaccia mortale. In particolare per i segmenti vulnerabili della società, compresi gli anziani e quelli con condizioni mediche di base. L’obiettivo deve essere quello di salvare vite e mezzi di sussistenza, che non si escludono a vicenda ma richiedono responsabilità civica e azioni concertate.

Molti Paesi occidentali stanno entrando in un territorio inesplorato mentre escono dalla quarantena. Attività come i test di massa e il distanziamento sociale saranno norme comuni per il prossimo futuro, principalmente volte a prevenire la seconda ondata di infezioni. Tuttavia, standard uniformi spesso non possono essere applicati a tutti i Paesi né al loro interno, in particolare perché l’impatto di Covid varia in base alle località. Insomma, una sola “taglia” non va bene per tutti. Ogni Stato deve perseguire politiche flessibili e pragmatiche che producano risultati – a livello nazionale, regionale o locale – e nel quadro costituzionale di ciascuna società democratica.

Alcune società asiatiche sono chiaramente meglio preparate ed equipaggiate per affrontare Covid a causa dei precedenti e dell’esperienza con altri focolai virali negli ultimi 20 anni, in particolare con la Sars.  Taiwan si distingue chiaramente come caso esemplare. Attraverso misure pratiche e responsabilità civica, Taiwan ha dimostrato come una società può continuare a funzionare affrontando una pandemia senza imporre un blocco totale.

Con solo sei morti e 429 infezioni Covid, Taiwan ha fornito alcune delle lezioni più preziose della pandemia. Considerati cittadini di una provincia rinnegata dal Partito Comunista Cinese (Pcc) al potere sulla terraferma, i funzionari taiwanesi sono profondamente consapevoli della strategia del Pcc, della sua repressione e del suo insabbiamento. Taiwan ha capito prima di altri che si stava verificando un micidiale scoppio virale nella città cinese di Wuhan, dove ha avuto origine il virus Covid. All’inizio di gennaio, l’isola ha iniziato a selezionare i viaggiatori dalla Cina continentale e ad adottare le misure necessarie per combattere l’epidemia.

Inoltre, i primi avvertimenti di Taiwan all’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) sull’epidemia non sono stati ascoltati. Dato che la leadership dell’Oms insegue la linea comunista cinese nel non riconoscere Taiwan, deve assumersi la sua giusta parte di responsabilità per le conseguenze dovute agli appelli dell’isola che sono stati ignorati. E alla scelta di politicizzare la lotta contro il Covid, che ha inevitabilmente portato alla perdita di tempo prezioso e sicuramente di tante vite.

Nonostante la diplomazia “mascherata” della Cina comunista nei primi mesi e la sua aggressiva campagna di disinformazione, la sua narrazione di un sistema a partito unico superiore che sconfigge Covid è stata ampiamente sfatata. L’opinione pubblica internazionale sta assumendo sempre più correttamente la responsabilità della Cina comunista nel tentativo di nascondere l’esistenza di Covid e di minimizzarne la gravità.  Ciò ha portato alla sua rapida diffusione in patria e ha provocato la perdita di centinaia di migliaia di vite, milioni di mezzi di sussistenza e il collasso dell’economia globale.

Nonostante abbia ottenuto elogi a livello internazionale per gli sforzi compiuti nella lotta contro Covid, la Corea del Sud ha immediatamente reimposto le misure di allontanamento sociale per evitare una nuova ondata dopo un gruppo di infezioni emanate da un quartiere della vita notturna. Un severo promemoria per le società occidentali che stanno lentamente emergendo dalla quarantena.

Nonostante i numerosi avvertimenti, molti leader occidentali inizialmente hanno sottovalutato la velocità del virus e sono stati colti alla sprovvista dall’impatto. Soprattutto dalla capacità del virus di sopraffare un sistema sanitario. Altri che invece hanno seguito subito i consigli e hanno preso provvedimenti sono ora meglio preparati ad allentare il lockdown. Mentre Italia, Francia, Spagna e Regno Unito hanno sofferto di tassi di mortalità per il Covid superiori a 20.000, in altre parti d’Europa le cose sono andate diversamente.

Finora la Germania è in parte sfuggita alla scia di sangue lasciata dal Covid tra i principali Paesi dell’Europa occidentale. L’eccezione è dovuta a vari fattori, tra cui un’organizzazione efficace, come dimostrano i circa 100.000 test effettuati al giorno. A questa si aggiunge una leadership politica responsabile a livello federale, regionale e locale, così come la responsabilità civica della gente comune. Anche qui, però, un recente aumento delle infezioni ha lanciato un avvertimento: la strada da percorrere è ancora lunga.

Un riconoscimento è dovuto anche agli stati dell’Europa centrale e orientale, a così come a molti Stati nordici e alla Grecia.  Sebbene abbiano visto i primi casi di infetti già ai primi di marzo, hanno saputo trarre una lezione dalla carneficina all’epoca già in corso in Italia. Hanno sfruttato con astuzia a loro vantaggio una breve ma preziosa finestra di opportunità, imponendo immediatamente misure efficaci di intervento rapido, con risultati impressionanti. Tra i Paesi nordici, rimane ancora fortemente dibattuto quello della Svezia. Lodato dall’Oms, riceve nondimeno continue critiche, e il conteggio di morti aumenta di giorno in giorno.

Nonostante i diversi approcci e risultati, l’Europa si sta dirigendo in blocco verso una depressione economica, con investimenti che precipitano e i deficit in forte aumento. Nella grande recessione del 2008, l’economia europea si è contratta del 4,5%. Quest’anno cadrà del 7,4%, mentre Stati meridionali come Grecia, Spagna e Italia dovrebbero scendere del 9%.

La pandemia di Covid ha avuto un grande impatto anche in America, in un ambiente politico già fortemente polarizzato. I numeri variano drammaticamente all’interno degli States. La sola area di New York contiene un terzo di tutte le infezioni e decessi negli Stati Uniti. Il successo, se ci sarà, sarà ampiamente determinato a livello federale. L’autorità di un governatore di aprire o chiudere uno stato, insieme agli sforzi responsabili da parte di funzionari locali e cittadini deciderà il risultato finale.

L’America Latina è invece allo stremo, e sembra registrare i tassi di coronavirus in più rapida crescita a livello globale. Con il precipitare della depressione economia in Brasile e Messico, i loro presidenti si dimostrano riluttanti a soffocare ulteriolmente il business e l’economia. In Messico il picco è atteso a metà maggio, e questo significa che le catene di approvvigionamento critiche per il mercato statunitense sono oggi fortemente a rischio. Il Cile costituisce un caso a sé: i testi di massa hanno conquistato i complimenti trasversali al governo di centrodestra, pochi mesi fa paralizzato dalle proteste di piazza.

Quanto all’Africa, sebbene l’impatto del Covid appaia finora lieve, i pessimisti temono che il peggio debba ancora arrivare. Mentre il Sudafrica e la Nigeria, le principali potenze economiche del continente, iniziano ad allentare i blocchi, il pericolo del Covid-19 non è ancora scampato.

Il danno economico a livello globale è fuori dubbio, sicuramente peggiore della Grande recessione del 2008. La domanda principale è quanto sia profondo. Non è dato sapere se sia più vicino alla crisi del 2008 o alla Grande Depressione del 1929. Forse da qualche parte nel mezzo.

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