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Una garanzia chiamata Occidente. Perché celebrare la fine della WWII

Di Agostino Giovagnoli

8 maggio 1945, fine della Seconda guerra mondiale in Occidente – 9 maggio 1950, discorso di Robert Schuman che ha aperto il cammino verso l’unità europea. La quasi coincidenza di questi due importanti anniversari ne evidenzia il nesso profondo. La tragedia globale provocata dalla più terribile guerra della storia imponeva una risposta altrettanto globale. Il mondo ha dato una risposta all’altezza della sfida costruendo un nuovo sistema internazionale, di cui l’unificazione europea è stata un cardine importante. Anche oggi è in atto una tragedia altrettanto globale, anche se fortunatamente di gravità molto più contenuta e non voluta da uomini o da governi. E anche oggi è necessaria una risposta all’altezza della sfida.

La risposta del secondo dopoguerra è stata organica, comprendendo principi morali e valori politici, scelte istituzionali e programmi economici. Fondata sulla dignità della persona umana e sui diritti dell’uomo (si vedano ad esempio gli articoli 1 e 2 della Legge fondamentale tedesca), questa risposta prevedeva un’Organizzazione delle Nazioni Unite molto rafforzata rispetto alla Società delle Nazioni, una crescente integrazione tra le economie nazionali, basata sulla stabilità monetaria, e molto altro. Tali elementi, molto diversi tra loro, avevano una base comune: opporsi a tutto ciò che aveva portato il mondo alla tragedia culminata nella guerra: totalitarismi, ideologie, odio, disprezzo, indifferenza… Ma la ricostruzione del dopoguerra ha avuto anche una fondamentale garanzia politica: quella offerta dai Paesi vincitori e in particolare dagli Stati Uniti. È stata una garanzia così forte da permettere al nuovo ordine internazionale di resistere – in buona parte – alla Guerra fredda. È la garanzia che per decenni abbiamo chiamato Occidente. Oggi questa garanzia non c’è più.

È il ritiro degli Stati Uniti dal ruolo svolto per decenni a rendere attualmente molto più deboli tutte le organizzazioni internazionali, compresa l’Organizzazione mondiale della sanità, oggi così importante. Si collocano su tale sfondo le risposte incerte alla pandemia e alla crisi che ne consegue: gli Stati, piccoli o grandi, procedono in ordine sparso, cercando di contenere i problemi interni e di galleggiare sul piano internazionale. Si è aperto un vuoto politico nel mondo e non si vede come potrà essere riempito: sotto questo profilo, la gara tra potenze regionali, a cui si sono iscritti anche gli Stati Uniti, non è rassicurante.

È un problema cruciale, che va al di là dei molti aspetti stravaganti dell’attuale presidenza Trump: si tratta, infatti, di una scelta di fondo che coinvolge l’intera società americana e gran parte della sua classe dirigente. Questo problema investe in particolare l’Europa. La stessa costruzione che chiamiamo Occidente è stata infatti profondamente incrinata dall’allontanamento americano dagli alleati europei.

In Italia si insiste molto sulla necessità di prendere posizione riguardo al conflitto che si sta inasprendo tra americani e cinesi. Ma ribadire la nostra lealtà agli Stati Uniti non ci garantisce un ritorno alla solidarietà occidentale, da cui questi hanno preso congedo. Ecco perché oggi il futuro dell’Unione europea è così importante: spetta agli europei assumersi la responsabilità dell’insieme di valori, tradizioni e politiche che costituiscono l’identità occidentale. Non aiuta certamente, perciò, il low profile delle grida nazionaliste e sovraniste sulla mancata solidarietà europea, mentre ci si oppone al rafforzamento delle istituzioni comunitarie, senza la quale nessuna solidarietà è possibile.

(Foto: Wikipedia-Montreal Daily Star: “Germany Quit”, 7 maggio 1945)

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