C’è un soggetto che da tempo tiene banco tra economisti, politologi, analisti di politica estera, giornalisti: la pandemia e la fine della globalizzazione. Basta digitare il lemma in inglese per trovare decine di riferimenti: the Economist vi ha dedicato negli ultimi mesi ben due copertine, Foreign policy un numero monografico, mentre non passa giorno che non ne discuta il Financial Times, oltre agli studi accademici. Questa fine della globalizzazione comincia anche a dare atti concreti: è di questi giorni la notizia che Boris Johnson sta studiando una self sufficency per non dipendere più dalle importazioni cinesi e che il Brasile di Bolsonaro sta sfruttando l’uscita dalle supply chain cinesi. Anche per Macron “questa globalizzazione è finita” e per il suo ministro dell’economia, Le Maire, “la Francia deve ora riprendersi la sovranità economica”. Infine l’ex segretario al Tesoro di Obama, l’economista Lawrence Summers, ha scritto su The American interest che la “nuova globalizzazione” dovrà essere al servizio di Detroit e non più di Davos (il Davos man di Bannon!): cioè non potrà essere più… globale.
Eppure tutto questo in Italia desta ancora scarso interesse. La nostra classe dirigente (politici, imprenditori, tecnocrati, burocrati) da crollo del Muro di Berlino ha adottato acriticamente il paradigma della globalizzazione, assieme a quello dell’europeismo che ne era un suo derivato. Le critiche alla globalizzazione sono state lasciate ai folcloristici movimenti di Genova mentre le previsioni di un Giulio Tremonti, che con i suoi libri aveva messo in guardia per tempo anche rispetto alla letteratura internazionale, sono stati poco meditati pure all’interno del suo campo.
E invece bisogna capire che la fine della globalizzazione (o di questa globalizzazione, se vogliamo un approccio più soft) richiede un cambio di paradigma culturale e uno choc di vasta portata. Nel documento che abbiamo redatto con Giulio Sapelli, Corrado Ocone, Aurelio Tommasetti, Antonio Pilati, Guido Cavalieri e Giorgio Zauli, questa esigenza è ben evidente, quando scriviamo che “la crisi ha distrutto il vecchio mondo della globalizzazione. Ci si para di fronte un mondo nuovo, in cui l’interesse della nazione torna ad essere il principale valore che una comunità deve perseguire. La nazione, l’Italia è forte. Ma lo Stato è debole. E noi dobbiamo renderlo efficace, ma snello. Quindi si all’interesse nazionale, no allo statalismo”.
Il cambio di paradigma sarà richiesto a tutta la classe dirigente. Qui ci limiteremo ad accennare a ciò che investirà la classe politica. In quella che Colin Dueck (The Age of Iron. On National Conservatism, Oxford University press, 2020) definisce l’”età dell’acciaio”, l’economia torna ad essere subordinata alla politica, le reti finiscono sotto il controllo dello stato nazionale e rispondono al suo comando. Ritorna la politica di potenza dello stato nazione, assieme al nesso strettissimo tra politica (ragion di Stato) ed economia, e ritornano i dazi come strumento di politica estera: soprattutto si afferma l’importanza per un paese di possedere un vero capo politico, impropriamente chiamato “uomo forte”. Il realismo politico, come scrive John Mearsheimer, tende infine a sostituire il liberalismo.
Se questo è vero però la politica non ha bisogno solo di capi carismatici, necessita di una élite, che sostenga il capo. Un’élite profondamente radicata all’interno dello spazio nazionale (che senta quasi carnalmente la nazione) e dei suoi interessi, in grado di difenderli con convinzione belluina, e al tempo stesso tecnicamente preparata ad affrontare gli scenari di scontro con gli altri interessi nazionali. Serve una classe politica che recuperi la capacità di comando rispetto a una tecnoburocrazia che, nell’età delle illusioni cominciata nel 1989 e finita oggi, aveva perseguito una politica debole. La salvezza, anche economica, dell’Italia dipenderà da quanto e in quanto tempo il Paese saprà produrre una élite capace di affrontare questa sfida.