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Israele ha deciso: il maxi impianto di dissalazione non sarà cinese (e Trump gode)

Non sarà la cinese Hutchison Company a costruire il più grande impianto di dissalazione al mondo che sorgerà in Israele. L’ha annunciato in questi minuti il governo guidato da Benjamin Netanyahu: a vincere è stata l’offerta presentata dal gruppo IDE Technologies, con sede a Kadima, nel Distretto centrale. A sostenere il progetto — che produrrà oltre 200 milioni di metri cubi di acqua all’anno— sarà un consorzio che vede protagonisti istituti bancari come l’israeliana Bank Leumi, la tedesca KfW (pubblica) e la Banca europea per gli investimenti. 

Nelle ultime settimane, attorno all’impianto Sorek 2 (che sorgerà vicino al Sorek Nuclear Center alla base aerea Palmachim), era andato in scena un braccio di ferro tra Israele e Stati Uniti, pronti allo scontro con lo storico alleato mediorientale nel caso in cui l’impianto miliardario nel kibbutz Palmachim, a Sud di Tel Aviv, avesse visto la partecipazione del colosso cinese, uno dei più importanti gruppi nel listino di Hong Kong.

Con la crisi sanitaria, economica e geopolitica figlia del coronavirus, Washington sta chiedendo a tutti i suoi alleati in giro per il mondo di ridurre il rapporto con la Cina per ragioni di sicurezza e i temi in cima all’agenda statunitense sono le infrastrutture (porti e 5G in particolare). Basti pensare al dietrofront che il Regno Unito si sta preparando a fare, dopo le pressioni statunitensi, sul coinvolgimento di Huawei, come raccontato ieri da Formiche.net. In Israele, invece, c’è crescente preoccupazione per il porto di Haifa, il cui terminal container verrà gestito dal prossimo anno (e per un quarto di secolo) dal Gruppo internazionale portuale di Shanghai: il timore è che le navi della Marina degli Stati Uniti si rifiutino di attraccare alla vicina base navale di Haifa.

Il rapporto tra Pechino e Gerusalemme è stato al centro dell’incontro avvenuto nei giorni precedente il giuramento del nuovo governo israeliano tra il segretario di Stato Mike Pompeo e il premier Benjamin Netanyahu. Come aveva raccontato allora a Formiche.net la giornalista israeliana Caroline Glick, uno degli obiettivi del capo della diplomazia a stelle e strisce era evitare che Israele firmasse l’accordo con la società cinese. La cerimonia era fissata per domenica 24 maggio, ci spiegava aggiungendo che era stata cancellata dopo la visita del segretario Pompeo. Secondo lui la cooperazione tra Israele e Cina potrebbe essere “dannosa” alla luce del coronavirus minando le relazioni tra “partner strategici”. 

“Gli statunitensi hanno inviato messaggi in modo gentile ed educato, ma ovviamente vogliono che riesaminiamo la partecipazione della società cinese alla gara”, aveva detto a Channel 13 un funzionario israeliano. L’ambasciatore degli Stati Uniti a Gerusalemme, David Friedman, in un’intervista al quotidiano Jerusalem Post aveva invece spiegato come la Cina sfrutti i suoi investimenti e progetti infrastrutturali per “infiltrarsi” nei Paesi. Nel caso israeliano, facendo leva sulla necessità dello Stato ebraico di ottenere capitali e diversificare i mercati di esportazione.

Si attende una risposta cinese, visto che prima del blitz del numero uno di Foggy Bottom, i giochi a favore della Hutchison Company sembravano chiusi. Grande sarà la delusione a Pechino: era stato proprio il premier Netanyahu durante la sua visita a Pechino nel 2017 a dichiarare davanti al presidente cinese Xi Jinping che la “Cina dovrebbe assumere il suo giusto posto sulla scena mondiale”, sottolineando che Israele “è un partner perfetto”.

Ad aprile, un rapporto del think tank statunitense Rand intitolato “Investimenti cinesi nella tecnologia e nelle infrastrutture israeliane: implicazioni sulla sicurezza di Israele e Stati Uniti” evidenziava come Washington dovrebbe preoccuparsi maggiormente degli investimenti cinesi nella tecnologia israeliana, che potrebbe dare alla Repubblica popolare un vantaggio sia militare che economico. Secondo il documento rapporto vi è incompatibilità tra gli interessi israeliani e cinesi in Medio Oriente, in particolare per gli stretti legami di Pechino con Teheran. Qualche esempio: la Cina ha fornito centinaia di milioni di dollari di armi all’Iran dal 2000, ha collaborato con il programma missilistico iraniano e con i programmi nucleari e si oppone all’azione militare contro la Repubblica islamica.

Shira Efron, una delle autrici del rapporto, evidenzia come la Cina stia “emergendo dalla crisi” da coronavirus “un po’ più forte dal punto di vista economico rispetto a Stati Uniti ed Europa”. Questo perché “malgrado l’economica cinese sia stata gravemente danneggiata”, Pechino “ha misure finanziarie davvero uniche perché non ha un’economica aperta”, potendo così “prestare molto denaro alle banche per sovvenzionare le società”. Come nota l’Agenzia Nova, Efron ha anche sottolineato che, mentre gli Stati Uniti e l’Unione europea guardano al mercato interno e chiedono alle persone di acquistare prodotti fabbricati localmente, l’economia cinese dipende dagli investimenti all’estero. Questo aspetto è significativo per Israele, perché probabilmente significherebbe che la quota cinese di investimenti stranieri in società israeliane crescerà. Efron ha spiegato che “se gli investitori statunitensi e europei non hanno soldi, ci saranno più investimenti cinesi” in Israele per finanziare le start-up.

Ma Israele potrebbe continuare sulla linea intrapresa oggi. Infatti, a Gerusalemme è sempre più nel vivo il dibattito attorno all’istituzione di un Comitato per gli investimenti esteri sulla base del Cfius del Tesoro di Washington per esaminare “gli aspetti di sicurezza nazionale nel processo di approvazione degli investimenti esteri”.

(Foto: IDE Technologies)


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