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L’Italia vista dagli Usa. Intervista all’ex ambasciatore Thorne

“È sempre un piacere parlare in italiano”. Ci saluta così David Thorne, ex ambasciatore statunitense in Italia ai tempi dell’amministrazione di Barack Obama ed ex consigliere del segretario di Stato John Kerry. Si trova a Newton, Massachusetts, dove è capo di Adviser Investiments. Ma il suo legame con l’Italia è ancora fortissimo, tanto che ci chiede di porgli le domande in italiano — “mi piace sentire la vostra lingua” — e ci risponde un po’ italiano e un po’ inglese. Anche in questa emergenza sanitaria ed economica legata al Covid-19, ci racconta, “vedo grande amicizia da parte degli americani verso il vostro Paese: molte persone mi hanno chiamato chiedendomi cosa potessero fare per aiutare”.

L’amministrazione statunitense guarda con attenzione a ciò che sta accadendo nel nostro Paese, in particolare alla campagna di aiuti cinesi, uno strumento di soft power con cui Pechino sta cercando di influenzare la politica e l’opinione pubblica italiane. È di questo avviso anche l’ambasciatore Thorne, che pur sull’approccio verso Pechino e la gestione della pandemia non le manda certo a dire all’attuale presidente Donald Trump, colpevole secondo lui di aver gestito in maniera “pessima” la crisi e di “cercare di dipingere la Cina come il nemico” anche per coprire i suoi errori. 

“Dobbiamo fare molta attenzione alla Cina e ai suoi tentativi di dipingersi come il leader del mondo”, avverte Thorne sottolineando come Pechino stia “cercando di presentarsi come un’alternativa migliore agli Stati Uniti”, anche presso i loro partner storici, “sia per gli scambi sia come Paese su cui fare affidamento”. Ma il coronavirus, è convinto Thorne, “sta anche facendo emergere le resistenze da parte di molti Paesi europei”: c’è “una crescente sensazione di sfiducia, anche negli Stati Uniti, verso la Cina, ritenuta inaffidabile dal punto di vista sanitario e tecnologico”, aggiunge. Ma non solo: “Basti pensare che quando Pechino ha deciso di chiudere i voli in entrata nel Paese ha comunque permesso che i cinesi viaggiassero verso altri parti del mondo”. E questo ha molto colpito l’opinione pubblica statunitense.

“Come detto il rapporto tra americani e italiani è molto forte, soprattutto in questa fase. Quanto, invece, alle relazioni diplomatiche mi sembra che ci sia una stima crescente per quanto fatto dal premier Giuseppe Conte per lo shutdown del Paese. C’è preoccupazione però rispetto all’apertura dell’Italia alla Cina” nonostante, sottolinea Thorne, questa crisi abbia “fatto sì che questa non sia, tra le priorità degli Stati Uniti, uno di quelle in cima alla lista”.

Gli raccontiamo del sondaggio di Swg secondo cui il 36% degli italiani spera che in futuro il Paese si allei con la Cina, il 30% con gli Stati Uniti. Sul podio dei Paesi “amici”, l’ex Celeste Impero svetta con il 52%, seguito dalla Russia al 32%, Terzi gli Usa al 17%. “Vista la storia comunista, la Russia ha sempre avuto un rapporto speciale con l’Italia che ho potuto vedere già da bambino nel anni Cinquanta, quando arrivai nel vostro Paese, che gli Stati Uniti temevano potessero diventare un Paese sovietico”, ci racconta Thorne, ricordando quando, a soli 8 anni, si trasferì a Roma con il padre, Landon Ketchum Thorne, scelto dal presidente Dwight D. Eisenhower come responsabile del piano Marshall nel nostro Paese. “Certe cose mi sembra siano rimaste parte della cultura del centrosinistra italiano”, aggiunge. Quanto, invece, ai risultati che riguardano la Cina, Thorne sostiene si tratti di una conseguenza degli aiuti, che “siano legati a questa breve fase”, ma anche che “dimostrino anche come l’America debba ripristinare la sua reputazione e la sua credibilità dopo Donald Trump”.

L’ambasciatore ci serve così l’assist per parlare delle prossime elezioni presidenziali. Se l’inquilino della Casa Bianca non dovesse cambiare, “il secolo americano finirebbe”, dice Thorne, grande amico dell’ex segretario Kerry, uno dei primi big del Partito democratico a dare il suo endorsement a Joe Biden. “Otto anni sono diversi da quattro: non riusciremmo più a recuperare la nostra credibilità e le nostre relazioni con i partner nel mondo. E alcuni Paesi potrebbero cercare altri partner anche se controvoglia. Un po’ com’è accaduto tra Italia e Cina”.

Spesso i presidenti rieletti cambiano passo rispetto al primo mandato. Ma con Trump è diverso, dice Thorne: “Lui no, non penso cambierebbe approccio. Lui è ciò che abbiamo visto all’opera in questi anni: non pensa al bene comune preferisce tutelare gli interessi degli amici, crede poco nella scienza e nel multilateralismo”. 

È proprio quest’ultimo punto, ci racconta Thorne, “al primo punto dell’agenda di Biden: è quanto aveva promosso da vice di Barack Obama ma anche prima, quando era a capo della commissione Affari esteri del Senato”. La differenza tra i due sfidanti di dicembre quando si parla di politica estera sta qui: “Parlo spesso con Biden e quasi ogni giorno con Kerry: emerge sempre la necessità di rassicurare il mondo che l’America non è impazzita e che i trattati internazionali, il clima e soprattutto il rapporto con l’Europa sono importanti. Un’amministrazione Biden sarebbe certamente molto aperta a nuovi accordi commerciali, come per esempio il Ttip su cui avevo lavorato assieme al segretario Kerry”, spiega.

Apertura e aperto sono termini che Thorne utilizza spesso parlando della visione di Biden. “Lui”, ci dice, “vuole un mondo aperto, anche verso la Cina. Perché, com’era stato con gli sforzi per coinvolgere Pechino nell’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici, non possiamo risolvere certi problemi globali senza cooperazione con la Cina”.

Ma il coronavirus, oltre ad aver alimentato la sfiducia verso la Cina, ha portato anche i dem a guardare a Pechino con maggior preoccupazione. Basti pensare alle molte risoluzioni bipartisan al Congresso di Washington su temi come lo Xinjiang, Hong Kong e l’origine del coronavirus. “Penso che l’apertura verso la Cina che c’era ai tempi dell’amministrazione Obama oggi sia impossibile, anche con un’amministrazione Biden”, confessa Thorne ricordando la dottrina obamiana della svolta asiatica. “Anche tra i democratici è forte la diffidenza verso Pechino. Il consensus generale va in questa direzione, verso un maggiore controllo sui prodotti che arrivano dalla Cina, sulla proprietà intellettuale ma anche sugli studenti cinesi che Pechino manda nelle nostre università e che probabilmente verranno controllati con più attenzione”.

Le risoluzioni bipartisan sembrano raccontare come la Cina sia la principale preoccupazione internazionale anche della sinistra americana, avendo rimarginato la ferita russa dopo la sconfitta di Hillary Clinton nel 2016. “Penso sia proprio sì”, dice Thorne. “L’economia russa non fa paura: preoccupano soprattutto i tentativi di generare caos in Occidente. Come hanno fatto quattro anni fa, penso che Mosca cercherà di interferire anche nelle prossime elezioni presidenziali”. Il grande rivale è la Cina: “Dobbiamo cooperare sulle grandi questioni globali ma rimanendo molto vigili”. E se il mondo cambia, la Nato deve cambiare. “Per Joe è il più importante accordo di sicurezza che gli Stati Uniti hanno nel mondo. Oggi le sfide sono cambiate, la Nato deve cambiare di conseguenza”, conclude l’ambasciatore Thorne.

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