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La liberazione di “Aisha” Romano e i nodi geopolitici da sciogliere. Analisi di Ricci

Di Alessandro Ricci

La bella notizia di ieri della liberazione di Silvia Aisha Romano dopo 18 mesi di prigionia rischia di essere offuscata da una serie di considerazioni geopolitiche e di carattere strategico che vanno necessariamente poste, al di là delle polemiche che stanno infiammando le pagine dei giornali e dei social.

VITTORIA MUTILATA DEL GOVERNO?

La prima questione è quanto la liberazione della cooperante 25enne sia stata un vantaggio per l’Italia: è stata una vera vittoria da parte del governo? L’operazione arriva in un momento cruciale per il paese e il governo, in cui la crisi del coronavirus rischia di minare alle basi l’esistenza stessa del governo Conte. A giudicare dalle critiche innescate, c’è tutto fuorché unanimità nella vicinanza all’esecutivo: l’arrivo inaspettato della cooperante in abiti somali, convertita e secondo alcuni incinta, con il portato di polemiche che ciò ha acceso, rischiano di rappresentare un boomerang per il governo, con l’aggravante di un’ingente somma pagata per il riscatto (non confermata dal governo), che oscillerebbe tra i 1,5 milioni e i 4 milioni, che avrebbe arricchito l’attività terroristica del gruppo jihadista. Tutti questi elementi di forte criticità – pur nella riuscita dell’operazione –, connessi alla trasformazione della cooperante e a ciò che dietro la sua liberazione starebbe, rappresentano i nodi principali di una “vittoria” che appare agli occhi dei più “mutilata”.

QUALE STRATEGIA PER L’ITALIA

Voci riferirebbero della stizza degli Stati Uniti per tutta l’operazione, in una regione – come espone bene Guido Olimpio oggi sul Corriere – che vede impegnate le truppe Usa contro le milizie jihadiste in quello scacchiere affollato. Si tenga poi conto del ruolo dell’intelligence turca, a quanto pare determinante per la riuscita della liberazione. Il tema non è di secondaria importanza, ma pone interrogativi ancora una volta sulla strategia italiana e sul ruolo dell’alleanza atlantica, soprattutto in una fase critica, qual è quella attuale, in virtù del coronavirus, in cui il governo oscilla tra Pechino e Washington, in una pericolosa indefinitezza strategica che rischia di minare scelte strategiche atlantiche storiche e stabili. Le oscillazioni e le parole sibilline usate nelle ultime interviste e nelle dichiarazioni ufficiali da parte dei rappresentanti del governo pongono il nostro paese in una rischiosa via intermedia, in cui in realtà l’oscillazione sembra pericolosamente propendere verso Oriente e verso il regime totalitario cinese.

IL RUOLO DELLA TURCHIA E LO SCACCHIERE LIBICO

Mariano Giustino ha ripreso un’inquietante foto dell’agenzia turca Anadolu, comprensibilmente non diffusa dai media italiani, che ritrarrebbe Silvia Romano, dopo la liberazione, in un pickup con giubbetto turco. L’immagine dimostrerebbe il ruolo prioritario giocato dalla Turchia per la liberazione, come pure Fiorenza Sarzanini riporta sul Corriere di oggi. Com’è ovvio, quello turco non sarebbe un aiuto fornito senza condizioni: la liberazione di Silvia Romano ha dunque a che fare anche con il ruolo strategico della Turchia in tutto il Corno d’Africa, dove è già molto influente. I tentativi di estendere la propria influenza in Libia, oltre che nel Mediterraneo e segnatamente a Cipro, fanno poi pensare a un incremento di Ankara quale player geopolitico di sempre maggior rilevanza, anche a discapito delle posizioni italiane in Libia. È presumibile, dunque, che lo scacchiere libico sia stato centrale nella riuscita dell’operazione conclusa ieri: quanto avverrà nelle prossime settimane in Nord Africa ci dirà di quanto la cooperazione con la Turchia si sia giocata anche nella prospettiva strategica libica.

IL RAFFORZAMENTO DEL JIHADISMO INTERNAZIONALE

Rimane poi il tema, di assoluta centralità, del rafforzamento del jihadismo e in particolare di Al-Shabaab, gruppo terroristico legato ad Al-Qaeda che opera tra Kenya e Somalia. Secondo molti osservatori, con il rilascio di Silvia Romano avrebbe ottenuto una doppia vittoria: finanziaria, per il riscatto ricevuto; e mediatica, grazie alla conversione della cooperante, al suo indossare il jilbaab somalo e alle sue parole non avversive nei confronti dei rapitori. Nell’ottica dei jihadisti, infatti, oltre all’aumentata capacità militare grazie all’eventuale somma ricevuta, l’aver convertito una miscredente rappresenterebbe un elemento dirimente nella logica religiosa, che li anima in via prioritaria. Questa conversione potrebbe far riaffiorare ad alcuni le immagini di due serie televisive (“Homeland” e “Califfato”), ma al di là delle suggestioni cinematografiche piuttosto inquietanti rimane la questione geopolitica e mediatica della doppia vittoria jihadista, che potrebbe essere ulteriormente incentivata da altri eventuali rapimenti.

CONTINUARE A PAGARE PER I RAPIMENTI

Una riflessione conclusiva, che si pone in una via intermedia tra le questioni geopolitiche e quelle di politica nazionale: vale la pena continuare a pagare – com’è presumibile, sebbene non accertato – per questi riscatti e per cooperanti che, legittimamente, decidono di fornire supporto in zone altamente critiche? Al di là degli accenti polemici che tale questione potrebbe porre, è utile riflettere seriamente sul doppio registro adottato dall’Italia: per i rapimenti che avvengono in patria non si prevede alcun riscatto e i conti correnti delle famiglie dei rapiti vengono bloccati (legge 82 del 1991): fu questa, oltre a un inasprimento delle pene per i rapitori, una ragioni principali che garantì uno stop ai rapimenti. All’estero ciò non avviene e, com’è noto, in altri casi si è proceduto alla liberazione pagando un riscatto. Ponendo tale questione significative riflessioni non tanto economiche (poco rilevanti), quanto molto di più di scenari geopolitici dirimenti per l’interesse nazionale, l’introduzione di norme più restrittive o di vincoli sulla libertà di cooperare in zone altamente a rischio potrebbe disincentivare eventuali futuri rapimenti. Senza un’assunzione di piena responsabilità personale da parte di chi opera in zone altamente pericolose, magari contro le avvertenze dello Stato, con tutti i rischi che derivano da tali “imprudenze”, il rischio è che si incentivi pericolosamente l’attività terroristica e si metta in serio pericolo la vita e la libertà di altri italiani impegnati all’estero.

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