Chiedersi dove va Lega è una domanda importante non solo per chi è simpatizzante di quello che resta il primo partito italiano ma anche per chi tiene alla tenuta dell’intero sistema politico nazionale. Un sistema sottoposto da anni a parecchie torsioni e che in sostanza non riesce a trovare ancora un suo equilibrio. E la domanda lo è ancora di più importante oggi che la Lega è all’opposizione. La quale, come tutti sanno, svolge un ruolo fondamentale in ogni democrazia, e a maggior ragione dovrebbe svolgerlo quando come ora, per una serie di motivi, a torto o a ragione, alcune delle più importanti libertà fondamentali sono nel nostro Paese (e non solo) temporaneamente (si spera) sospese.
Nell’anno in cui ha governato, nell’atipico governo coi Cinque Stelle, la Lega ha visto aumentare i suoi consensi, misurati non solo dai sondaggi ma anche da varie tornate elettorali, fino a percentuali democristiane. Oggi invece, stando ai sondaggi, essa, pur restando il primo partito, è in sostanzioso calo: stamattina Ilvo Diamanti su La Repubblica la dava al 26,6% dei suffragi a fronte del 35,3 del luglio 2019. Come sappiamo, le rilevazioni demoscopiche non sono spesso attendibili, anche per l’estrema volatilità dell’elettorato attuale, ma questa volta sembrano convergere con una sensazione più generale, che è quella che vede Matteo Salvini, il leader della Lega, impacciato se non contraddittorio nelle sue azioni. Da quando è scoppiata la pandemia, sembra quasi che egli non tocchi più palla o che comunque giochi di rimessa. Laddove è il governo, e soprattutto il premier Giuseppe Conte, a dare le carte. In verità, la posizione di Salvini è oggettivamente difficile, stretto al centro di uno spazio politico che ha alle due ali la bravissima Giorgia Meloni Meloni e il ringalluzzito Silvio Berlusconi.
Mente la prima procede tranquilla a puntellare il suo elettorato direi di destra classica, restando quasi l’ultimo partito ideologico e molto potendo quindi spendere anche sul terreno della coerenza fra idee e comportamenti; l’altro, il Cavaliere, orfano di una leadership perduta, e soprattutto forte dei legami con l’establishment europeo, gioca una partita più libera e curvabile a seconda dei casi e degli interessi. In tutto questo si aggiunge, almeno secondo i giornali, una crescente ostilità a Salvini interna alla Lega che troverebbe espressione nell’ala “moderata” e dialogante del partito che fa capo a Giancarlo Giorgetti e in quella “nordista” e “autonomista” che ha come maggiore riferimento il governatore del Veneto Luca Zaia.
Quest’ultimo, effettivamente, è il governatore che è uscito meglio di tutti come immagine dalla prova Coronavirus. Sia per aver saputo contenere il contagio, sia perché si è mostrato rassicurante (da buon vecchio democristiano) verso i suoi cittadini, sia per la consapevolezza che mostra della necessità di far ripartire l’economia. E in effetti, il sondaggio di Diamanti pone Zaia addirittura al secondo posto, con il 51%, dietro Conte e molte posizioni avanti a Salvini, che scende dal 46 al 37%, nel gradimento degli italiani.
In verità, non credo che sia plausibile pensare ad una diversa leadership della Lega, nemmeno in prospettiva. Si tratta piuttosto di uscire per il partito, sotto la guida di Salvini, da uno stallo che è nei fatti, quasi a suggello della vecchia sapienza andreottiana che il potere logora chi non ce l’ha. Lo si potrebbe fare a mio avviso solo con una “rivoluzione culturale”, un po’ di coraggio e, quindi, anche correndo un rischio politico.
La “rivoluzione” consisterebbe nel farsi la Lega paladina dei produttori e non, come è stato finora (vedi “quota 100”), dei “deboli”: sia perché i deboli sono protetti (almeno a parole) da altre forze politiche, sia perché la precondizione a che essi possano essere aiutati è che si crei prima la ricchezza perduta.
Il coraggio consisterebbe nel lasciare libero a destra uno spazio, che è presidiato dalla Meloni.
Il rischio è proprio quello di lasciare a Fratelli d’Italia una quota di voti forse significativa, puntando però a conquistare quelli di chi vuole essere non protetto ma lasciato libero di operare. L’impresa non dovrebbe essere difficile se, come ritengo, il tempo della resa dei conti è per tutti, non solo per il governo, vicino. A quel punto in molti capiranno da soli che il paternalismo protettivo governativo poteva forse avere un senso nella fase 1 dell’epidemia ma è semplicemente suicida per il Paese in quella della ripartenza e del rilancio.