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Ecco la macchina celibe del “diritto di poltronanza”

Di Antonello De Oto

Si suole definire macchina celibe un marchingegno che consuma più energia di quanta ne produca, aggeggio complicato e strutturalmente insensato nella sua composizione. Quindi si può dire che il neologismo di macchina celibe sembra nascere per definire un macchinario tendenzialmente inutile che richiede un esagerato consumo di energie e che nella sua esistenza ultima è destinato a sprecare più di quanto produca. Nel divenire della storia Carrouges ha poi avuto cura di allargare questa definizione, che dobbiamo però a Marcel Duchamp, a diverse machine célibataire come la macchina della colonia penale di Kafka, quelle narrate da Edgar Allan Poe nei suoi racconti e quelle inverosimili descritte da Rymond Roussel, conosciuto in Italia, soprattutto per i suoi romanzi, tra cui svetta Locus Solus del 1914, scritto pseudoscientifico e immaginifico al contempo.

Confesso che in questi giorni di lockdown, mentre assistevo al fiorire di virologi della domenica e negoziatori di rapimenti internazionali da tastiera, il mio pensiero è volato invece più di una volta alle c.d. macchine celibi e ad un suo parallelo sociale con l’istituto del reddito di cittadinanza. Avevo già in un recente passato avuto modo di esternare i miei dubbi applicativi dal punto di vista strettamente giuridico in un articolo dal titolo La cittadinanza nella prospettiva del diritto al reddito minimo garantito apparso su Rivista del diritto della sicurezza sociale n.1 del 2014 proprio su tale meccanismo complicato e denso di limiti strutturali. Nelle intenzioni di chi lo ha varato certo un marchingegno di “aiuto sociale” calato però in una democrazia fondata sul lavoro (e non sul welfare) come la nostra, anche in relazione alle esperienza pregresse delle socialdemocrazie scandinave e al suo legame indissolubile con il c.d. reddito di esistenza. Istituto che poi però ha finito per essere percepito dal corpo elettorale come una macchina di sussidio e consenso soprattutto in zone del Paese storicamente depresse dal punto di vista economico.

Sin dal suo varo mi ero convinto che il reddito di cittadinanza fosse, nel suo essere profondo, una macchina celibe, un istituto che ingoia milioni di euro e non reca con sé purtroppo quella libertà dal bisogno e quella gioia di realizzarsi che, pur in una società frammentata e delocalizzata come la nostra, solo un lavoro degno di questo nome si porta dietro. Un sussidio così concepito sembra spendere molto e in definitiva produrre socialmente poco. Ha certo un effetto nichilistico, annulla e libera l’essere umano da un obbligo storico verso se stesso, quello di cercare un futuro, una strada, una realizzazione del sé. Al netto dei navigator, delle buone intenzioni e di lande di lavoro solo sognate e mai materializzatesi, questo è purtroppo l’effetto ultimo nella testa dei fruitori. Una proposta che è stata indubbiamente il ticket vincente alle ultime elezioni politiche per la compagine pentastellata, sogno proibito per molti milioni di italiani non stabilizzati o inoccupati o come qualche maligno (non certo noi) ha avuto il coraggio di asserire, anche segreta speranza di tanti lavoratori “in nero”.

Se si fa un passo indietro nella nostra storia recente si noterà che richieste molto simili furono avanzate da compagini di estrema sinistra come Democrazia proletaria di Mario Capanna che richiedevano queste forme di sussidio, con l’aggiunta di una sorta di clausola di disponibilità a svolgere almeno un lavoro socialmente utile, proposte variamente declinate dalla sinistra socialista (Marianetti) e comunista (Bassolino) che vedevano però nel lavoro e nella gestione sindacal-politica del conflitto sociale ancora due importanti capisaldi da preservare.

Ebbene oggi, dopo la ri-comparsa sulla scena mondiale di un attore che non faceva capolinea dal lontano 1917 ovvero l’emergenza epidemiologica, pare che la situazione in materia sia peggiorata ulteriormente. Un po’ per fattori strutturali (la frenata del lavoro dovuta al Tso collettivo operato necessariamente dal governo) un po’ per tendenza (allarghiamo la platea del sussidio che male non fa da molti punti di osservazione). Così la macchina celibe del reddito di cittadinanza si trasforma e amplia nei suoi presupposti politici in reddito di emergenza e che a breve molto probabilmente evolverà ulteriormente, prendendo a prestito la geniale (e innegabilmente simpatica) definizione del collega Giampiero Di Plinio, in “reddito di poltronanza”, stante che la contropartita richiesta anche in un momento così difficile, ai percettori di tali sussidi, di fatto non c’è. Vi aiutiamo ma aiutate mi verrebbe allora da dire. Sempre pronti a dare socialmente a chi è nel bisogno, certo, ma senza rinunciare al proprio essere, al sogno della ricerca di una strada, di quella costruzione del sé che ci definisce e al contributo che nell’emergenza è responsabilmente dovuto da tutti, anche nelle storie di vita e lavoro meno fortunate.

Si potrebbe allora, mi domando, caro presidente Conte chiedere almeno ai percettori di questo sussidio in un momento così collettivamente grave di alzarsi per un tempo breve dalla poltrona e dare una mano al Paese? Quell’esercito di assistenti civici pensati per gestire il ritorno ad una agognata normalità potrebbe così essere pescato non solo dai volontari tout court ma anche da coloro che versano nella condizione di percettori di “reddito di poltronanza”? Ce lo auguriamo per loro, per noi e per le casse dello Stato. O altrimenti saremmo ancora di fronte all’ennesima macchina celibe di italica fattura.

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