È il tema del momento: “Non è ancora questo il tempo dei party, delle movide e degli assembramenti vari”, ha detto il Presidente del Consiglio in Parlamento, aggiungendo che “occorre fare attenzione perché esporre sé stessi al contagio significa esporre al contagio anche i propri cari”, chiedendo uno sforzo soprattutto ai giovani che, più di altri, possono aver sofferto il confinamento degli ultimi due mesi. È un comprensibile messaggio di prudenza: tutti i fenomeni di aggregazione, magari senza porre la giusta attenzione all’utilizzo di dispositivi di protezione individuali, potrebbero in questa fase risultare pericolosissimi, proprio nel momento di un rassicurante recupero dal maledetto contagio. È, in fondo, la stessa banale motivazione in base alla quale, almeno per il momento, gli uffici pubblici continuano ad operare, ordinariamente, in modalità di lavoro agile, o smart working. Apriti cielo! In nome della lotta ai bacchettoni e sull’onda dell’indignazione avverso chi intende comprimere il diritto al ritorno alla socialità e al divertimento, è scattata, quasi unanime, la condanna degli opinionisti e del famoso “popolo della rete”. La questione è, in realtà, di una disarmante semplicità. La cautela è doverosa: se giovani (o meno giovani, perché no?) vogliono vedersi per un aperitivo, una cena, o una passeggiata in centro, è sufficiente attrezzarsi di buon senso, evitando di adottare comportamenti che, almeno fin quando le autorità lo diranno, possano favorire la recrudescenza del Covid-19. Starà alle forze dell’ordine e agli stessi esercenti di bar e locali e richiamare tutti al rispetto di queste poche, elementari norme. C’è, tuttavia, un altro aspetto su cui val la pena riflettere, nella speranza che la crisi sanitaria da cui sembra si stia uscendo lasci almeno in eredità una qualche lezione. Quel che comunemente viene definita movida – un termine che ha un significato storicamente importante – è stato rozzamente declinato, nei comportamenti di tanti, nel fare quel che si vuole, dove si vuole, quando si vuole, impippandosene delle esigenze dei loro concittadini. Sono ormai anni che è invalsa l’abitudine, soprattutto nelle città, di concepire il divertimento serale come rumore fine a sé stesso. Non tutti gli “aperitivisti” e i tiratardi si applicano a far casino, naturalmente. Ma, complice il lassismo di molti ristoratori, che per un tavolino all’aperto in più chiudono volentieri un occhio, il legittimo relax di tanti è diventato l’incubo di molti. Di quelli che, per loro sfortuna, devono alzarsi la mattina presto, anche nel fine settimana, per lavorare. E che aspirano – che gente strana, certuni – a poter passare una tranquilla serata in casa e a metter su 7 o 8 ore di sonno. Ebbene, questa elementare regola di civile convivenza è bellamente ignorata dai mattatori della notte. Non si tratta di fare le barricate fra gli Ebenezer Scrooge della penisola e chi vuole ritornare quanto prima alla vida loca. Il punto è che estate o inverno, centro o periferia, non c’è scampo: la norma è lo sballo, il casino, l’alcol, il chiasso. In fondo, non si tratta di null’altro che della trasposizione, in salsa divertimentificio, dell’imperante menefreghismo di coloro i quali – non tutti, ma tanti – campano secondo il dogma del chissenefrega, del tutto incuranti dei basilari doveri derivanti dall’appartenenza ad una comunità. È la ghenga della doppia fila, dell’evasione fiscale, del tifo sguaiato, dei teli in spiaggia ad occupare posti e delle file saltate. Sono quelli che non concepiscono – perché non lo comprendono, nessuno glielo ha mai spiegato – che ci sono cose che semplicemente non si fanno. In molti sostengono che l’esperienza del virus ci renderà tutti migliori. Con un po’ di fiducia, ne consegue, allora, un amichevole consiglio: le sere che verranno, di grazia, non ci rompete le palle.
Movida? No, grazie: la mattina lavoro
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