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Caso Romano, ong, sicurezza e riscatti. L’analisi dell’amb. Marsilli

Di Marco Marsilli

Organizzazioni non governative, meglio note con l’acronimo Ong , menzionato per la prima volta nel 1945, all’art. 71 della Carta delle Nazioni Unite. Si tratta di entità private, senza fini di lucro e indipendenti dai governi e dalle linee politiche degli stessi, che ricavano una parte significativa (anche se quasi sempre non esclusiva) dei loro introiti da fonti private, soprattutto da donazioni. Le finalità perseguite sono di carattere sociale, e spaziano in vari settori: la tutela dell’ambiente, la difesa dei diritti umani, la protezione delle minoranze etniche e religiose, la cooperazione allo sviluppo e l’ umanitario (il comparto più conosciuto e prevalente sul piano dei progetti attuati). Le loro forme giuridiche possono essere varie, ma nella grande maggioranza assumono le vesti di fondazioni o associazioni.

Nonostante la loro sostanziale indipendenze dalle politiche governative, le Ong possono collaborare con le istituzioni pubbliche alla realizzazione di obiettivi condivisi, ricevendone di conseguenza specifici finanziamenti. In Italia, la materia è stata per quasi 30 anni retta della legge 49/1987 “Nuova disciplina della cooperazione dell’Italia con i Paesi in via di sviluppo”, di cui l’art. 48 prevedeva da parte del ministero di competenza (all’epoca ancora denominato Mae) il “riconoscimento di idoneità” indispensabile per l’assegnazione di fondi pubblici. All’epoca circa 230 Ong risultavano inserite in tale categoria.

Successivamente, a partire dal 29 agosto 2014, è entrata in vigore la legge di riforma della cooperazione allo sviluppo (la nr. 125/2014) che ha previsto come principale organismo in materia il “Consiglio nazionale per la cooperazione allo sviluppo”, composto da soggetti pubblici e privati, profit e non profit, rappresentanti delle regioni e delle province autonome e presieduto dal titolare della Farnesina.

La legge ha altresì eliminato il riconoscimento di idoneità, istituendo in sua vece un elenco delle Organizzazioni della società civile (d’ora in poi Osc). Dopo la presentazione di un’ampia documentazione di supporto e le verifiche di competenza, l’iscrizione è effettuata dall’Aics (Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo), il braccio tecnico-operativo del sistema italiano di cooperazione, con funzioni di istruttoria, finanziamento e controllo delle iniziative avviate nel settore. Anche dopo il “cambio di sistema”, il numero delle Ong iscritte non ha fatto registrare sostanziali variazioni (sempre oltre le 200 entità, che comprendono anche le “organizzazioni ombrello” che riuniscono alcune di esse).

Con la nuova legge, i vertici politici hanno inteso allinearsi agli orientamenti emersi nella comunità internazionale negli ultimi vent’anni, affermando in maniera inequivocabile che la Cooperazione per lo sviluppo sostenibile, i diritti umani e la pace “formano parte integrante e qualificante della politica estera dell’Italia”. Logica conseguenza di tale fatto è stata la modifica della denominazione del ministero degli Esteri (divenuto “e della cooperazione internazionale”). Con l’art. 23, si prevede, a riconoscimento significativo del loro ruolo, che anche “le organizzazioni della società civile e gli altri soggetti senza finalità di lucro sono soggetti del sistema della cooperazione allo sviluppo”, ponendosi su un piede di parità con le amministrazioni dello Stato e degli altri enti pubblici.

Ancora sull’aspetto finanziario potrà risultare d’interesse la constatazione che, almeno per quanto concerne le Ong principali, finanziatori pubblici e donatori privati corrispondono con percentuali non lontanissime fra di loro (55% contro 45%). Nelle due “classifiche” sono leader come finanziatori, da un lato, il Maeci, l’Unione europea, le Regioni e le agenzie Onu mentre, dall’altro, Fondazioni private, le Chiese, le aziende e i 5/1000. Sul piano nazionale, nel 2017 il rapporto in termini percentuali fra l’ aiuto pubblico allo sviluppo (Aps) e il reddito nazionale lordo (Rnl) è stato dello 0,30. Si tratta di un risultato ancora lontano dal raggiungimento dell’obiettivo di sviluppo 17 dell’Agenda Onu 2030 (che lo fissa nella prospettiva di quella data a 0,70), ma comunque significativo della volontà dell’Italia di avvicinarsi alle prestazioni dei paesi tradizionalmente più “generosi” (in primis i nordici).

Per quanto riguarda gli obblighi di una Ong iscritta nell’elenco Osc, per brevità ci si può soffermare su quattro di essi, particolarmente significativi. In primo luogo, la predisposizione di rapporti sulla propria attività su base periodica, rilevanti anche ai fini del rinnovo della iscrizione. In secondo, la pubblicazione sul sito della stessa Ong della lista dettagliata dei finanziamenti ricevuti dalla Pubblica amministrazione nell’anno precedente (nell’ambito della riforma del Terzo settore) e della relazione di missione. Come terzo, la dimostrazione dell’ assenza di pendenze con il fisco o di cause giudiziarie in corso. In quarto e ultimo, la sottoscrizione di un protocollo di sicurezza. Si tratta di adempimenti, funzionali e burocratici, indubbiamente impegnativi e “time consuming”, che richiedono da parte delle Ong una consistente struttura amministrativa, in aggiunta alle équipe operative sul terreno.

A fronte delle oltre 200 Ong figuranti nell’elenco Osc, operano in totale indipendenza e al di fuori da ogni controllo, centrale o periferico, di ministero e ambasciate, all’incirca 500 Ong “non iscritte”, fra le quali spicca l’ormai sfavorevolmente nota “Africa Milele”, alla quale collaborava (a quanto consta senza alcuna copertura, nemmeno sanitaria) la cooperante Silvia Romano, recentemente rientrata in Italia dopo 18 mesi di prigionia spesi fra il Kenya e la Somalia.

Si pone a questo riguardo una questione centrale, a mio avviso non sufficientemente dibattuta a livello di opinione pubblica e organi di stampa. È ipotizzabile avviare nei confronti dalla titolare della Ong marchigiana un procedimento per accertarne le responsabilità per quanto occorso alla dipendente? In adesione alle opinioni che si sono espresse in senso favorevole, direi personalmente di sì, condividendo la valutazione che le disposizioni del decreto legislativo 81/2008 (articoli 28 e 3 comma 12bis) in materia di obblighi del “datore di lavoro” sembrano sul punto piuttosto chiare.

Per quanto riguarda, invece, il diverso regime venutasi a creare nel corso degli anni fra i sequestri di persona che hanno luogo in territorio nazionale ( vigendovi la legge del 15 marzo 1991 che impone il blocco dei beni alle famiglie del rapito) e la diversa prassi invalsa per l’estero (in presenza, in almeno alcuni casi, di riscatti pagati ai sequestratori), la questione appare estremamente complessa. Un rapimento compiuto all’estero coinvolge di norma una pluralità di “attori” (leggasi di organizzazioni criminali di varia estrazione) e, spesso, anche di governi di Paesi terzi, risaputamente sensibili per tutto quello che avviene sul loro territorio. Occorre riconoscere che una serie di strumenti multilaterali (fra i quali almeno due risoluzioni Onu) si pronunciano chiaramente contro il pagamento di riscatti mentre, all’atto pratico, dazioni in danaro sono state in realtà corrisposte da un certo numero di Stati per la liberazione di propri cittadini.

In conclusione, ritengo che le misure più immediate, anche perché di non impossibile attuazione, che ora si impongono, siano quelle mirate ad avvicinare, per quanto possibile, i modus operandi di tutte le Ong, prendendo ovviamente a modello di riferimento le maggiori garanzie offerte da quelle iscritte. Nel caso delle circa 500 non iscritte – che, al di fuori della pessima pubblicità apportata alla loro categoria dalla “consorella” di Fano – rappresentano comunque una componente molto significativa del volontariato italiano che merita di essere salvaguardata, le strutture più esili e i minori mezzi normalmente a disposizione non dovranno più fungere da giustificazione sul piano della insufficiente professionalità e preparazione del personale che vi è addetto.

All’atto pratico, si possono prevedere da parte di ognuna di esse tre misure: la sottoscrizione di un protocollo di sicurezza contenente garanzie per ogni volontario impiegato; la frequenza del proprio personale ad un corso di formazione, organizzato da un ente qualificato e mirato al paese di destinazione, indispensabile in primis per la gestione delle situazioni di pericolo. In terzo luogo, l’adesione delle Ong non iscritte ad almeno le principali disposizioni dell’accordo di collaborazione concluso nel 2016 fra le “consorelle iscritte” e la unità di crisi del Maeci. Con ciò sarebbe possibile condividere – al centro e con le ambasciate territorialmente competenti – dati essenziali riguardanti i nostri cooperanti in loco, quali generalità, data di arrivo e partenza dal paese, precisa localizzazione, interlocutore di riferimento, ecc.. Dati solo in apparenza banali, ma che diventano vitali caso del verificarsi in loco di una situazione di emergenza, politica o naturale che sia.

Riassumendo, l’obiettivo che ritengo di prioritario raggiungimento da parte delle Ong italiane a favore dei 22mila (circa) nostri cooperanti che vi prestano sevizio, può essere efficacemente riassunto nello slogan “maggiore sicurezza e maggiore formazione”.

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