Sul rapimento e la liberazione di Silvia Romano molto e a buona ragione è stato detto e scritto dai media. Tuttavia, taluni aspetti sono rimasti un po’ nell’ombra o non hanno avuto la centralità che meritavano. Il primo, a mio modo di vedere, riguarda la responsabilità che grava sul datore di lavoro in materia di sicurezza, ossia il rispetto di una legge ben chiara (il decreto legislativo 81 del 2008) che regola la materia e non lascia scampo agli obblighi di chi detiene le funzioni amministrative in un’organizzazione aziendale, tra cui dovrebbero essere comprese anche le Ong. I cui responsabili hanno effettuato ad esempio una corretta valutazione dei rischi cui andava incontro la giovane cooperante in Kenya? E se sì, quali provvedimenti cautelativi hanno adottato a tutela della sua sicurezza?
Una legge, la 81/2008, che pare applicata in maniera stranamente selettiva, tanto perentoria in alcuni casi (vedansi i tecnici della Bonatti uccisi in Libia nel 2015) quanto evanescente in altri (il caso Regeni ad esempio, in cui il dito accusatore è stato puntato sull’esecutore del delitto, gli agenti egiziani, più che sul mandante, la tutor dell’università di Cambridge).
Vi è da augurarsi pertanto che la magistratura apra un fascicolo sulle responsabilità di chi ha mandato Silvia Romano allo sbaraglio, anche e soprattutto per stimolare una regolazione condivisa delle attività e dei comportamenti delle Ong e un loro inserimento in concrete e strutturate strategie di cooperazione e sviluppo.
Nel caso specifico poi, il rispetto della legge penale andrebbe anche preteso verso chi si è adoperato per far conseguire il profitto dei sequestri di persona a scopo di estorsione, e chi (art. 270 quinquies 1 c.p.) ha raccolto, erogato o messo a disposizione denaro o beni destinati, anche solo parzialmente, al compimento di attività terroristiche, indipendentemente dall’effettivo utilizzo dei fondi. In realtà, il malvezzo nasce da lontano; ricordiamo ad esempio la vicenda delle due Simone, cooperanti in Iraq e costate probabilmente non certo meno della Romano ai contribuenti. Ed è altrettanto indubbio che la notoria propensione italica a risolvere con questo mezzo il triste fenomeno abbia allettato i diversi gruppi terroristici, irritando nel contempo gli alleati nella guerra al jihadismo.
Ma poiché esiste un principio costituzionale di azione penale obbligatoria costantemente rivendicato dall’Autorità giudiziaria, ci attendiamo che, in presenza di una notizia di reato, vengano effettuati i necessari accertamenti per verificare se effettivamente un pagamento sia avvenuto a favore dell’organizzazione terroristica, direttamente o attraverso interposte persone, per ottenere la liberazione delle sequestrate. Solo al termine di tale indagine potrebbe essere valutata la sussistenza di qualche esimente, allo stato alquanto dubbia, viste le notizie di pubblico dominio sulla vicenda.
Dovremmo diversamente ritenere che l’obbligatorietà dell’azione penale sia riservata a quei servitori dello Stato accusati, ad esempio, di non aver adeguatamente protetto le proprie installazioni da attacchi condotti dalle organizzazioni terroristiche, anche grazie ai finanziamenti inopinatamente ricevuti. Per i disattenti mi riferisco ad uno dei non pochi casi di “giustizia” che ha condannato in sede civile un comandante militare (assolto in sede penale), ad indennizzare di tasca propria con 70 milioni di euro i parenti delle vittime di un attentato terroristico.
Chiuderei queste poche riflessioni con un’osservazione di carattere formale che poi forma è fino ad un certo punto. In un passato neanche troppo remoto, al termine di operazioni quali quella che ha riguardato Silvia Romano, gli elogi (peraltro ben più sobri) venivano riservati alle forze di polizia che avevano liberato gli ostaggi e arrestato i sequestratori, e a questo forse sarebbe bene anche oggi attenersi, evitando tra l’altro la messa in campo di una coreografia più consona a set di altro tipo che a uno specifico protocollo che mantenga integri la dignità e il rango delle istituzioni.