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La pandemia e le sue conseguenze globali. L’analisi di Politi

Le pandemie non sono una novità nella storia umana e contemporanea. Prima di questo virus, quello che al 21 maggio ha causato (dati Oms) 4.864.881 casi confermati e 321.818 morti, patologie come l’influenza asiatica e quella di Hong Kong hanno causato ciascuna 1,1 milioni di morti. La recente influenza suina H1N1, invece, ha causato tra le 151.000 e le 575.000 morti stimate.

Gli effetti di questa pandemia odierna non sono ancora rilevanti in termini di vittime, ma stanno già influenzando la capacità e funzionalità complessiva della politica, dei mercati e delle economie globali. L’anno scorso, la Fondazione Nato ha pubblicato il volume Shaping Security Horizons – Strategic Trends (2012-2019) dove vengono anticipati nel breve termine (1-2 anni) alcune tendenze rilevanti per gli affari globali. Tra gli esperti sanitari, l’attuale pandemia è stata anticipata come un evento inevitabile e ciò è stato recepito anche ai livelli alti della presidenza statunitense, come dimostrano i briefing per la transizione presidenziale nel gennaio 2017 e l’esercitazione Crimson Contagion 2019, avvenuta in agosto 2019.

La pandemia Covid-19 va considerata quello che è: un fattore di tensione globale (non solo uno stress test come quello delle banche, ma un vero a proprio agente di tensione) che pone un’accresciuta pressione sulle visibilissime e fragilissime faglie del nostro mondo e sui flussi globali strutturanti. Tra i flussi colpiti direttamente e in misura considerevole, annoveriamo:

  • l’ecosistema (specialmente il confine genetico tra animali e umani, come definito da Yuval Harari);
  • il flusso e lo scambio di alimenti, di beni agricoli, di tecnologia avanzata e delle tecniche di utilizzo che ne conseguono;
  • le migrazioni, che queste siano permanenti o temporanee, reali o virtuali;
  • le forme di energia, sia fossili che rinnovabili;
  • i capitali finanziari e investiti;
  • i flussi di conoscenza, specialmente quelli che orientano i settori di ricerca.

L’ultimo flusso, ma non il meno importante, è rappresentato dall’acqua potabile. Questa diventerà un problema sempre più grave con il progredire dell’incipiente recessione economica, ponendo le basi per violentissimi disordini, se non vere e proprie guerre per l’acqua. L’effetto combinato di questi flussi sta impattando su due principali problemi di natura transcontinentale, presi in considerazione dal citato libro Shaping Security Horizons: il corso della globalizzazione e la diffusione di sistemi democratici.

Cominciamo da quest’aspetto. Ad oggi, democrazia e libertà stanno vivendo una ritirata su scala globale, come testimoniano i dati raccolti dal censimento annuale della Freedom House. Nel periodo 2008-2018, i Paesi liberi sono passati dal 46,1% della popolazione mondiale al 44,1%, i parzialmente liberi dal 32,2% al 30,3% e la popolazione dei Paesi non liberi è passata dal 21,8% al 25,4%. Il fenomeno è ancora relativamente ristretto rispetto all’ondata di democratizzazione degli anni Novanta, ma è una tendenza persistente e le notizie provenienti da alcuni paesi dell’Ue e della Nato non sembrano incoraggianti. Tuttavia, anche se non siamo ancora vicini alla fine della pandemia, i primi risultati temporanei su come i regimi politici abbiano gestito l’emergenza sono interessanti.

Al momento cinque Paesi per approssimazione si distinguono positivamente per i loro risultati, alcuni nonostante i gravi errori iniziali: Cina, Giappone, Taiwan, Singapore e Corea del Sud. Tralasciando le assurdità dello scontro di civiltà, tre sono democrazie, uno è un regime parzialmente libero (secondo l’indice della Freedom House) e uno è un regime a partito unico. Altre graduatorie di protezione medica più sofisticate, collocano tra i primi dieci Paesi sette democrazie, un Paese parzialmente libero, una regione speciale parzialmente libera e un Paese a partito unico.

Risulta invece differente la prospettiva del quadro multilaterale che sta alla base della globalizzazione ancora esistente, soprattutto perché le élite politiche sono spesso scollate rispetto alle vigenti realtà economiche. La risposta di ogni grande governo, in particolare nell’Unione europea, è stata piuttosto scoordinata e anche la Nato, fino qualche tempo fa, ha avuto i suoi problemi nel fornire una risposta coerente. Di solito la colpa è gettata sugli organismi internazionali, ma questi hanno un processo decisionale intrinsecamente più complesso, spesso rallentato dai Paesi più grandi, che invece hanno una responsabilità primaria.

Le basi dell’erosione della globalizzazione, ovvero lo sforzo statunitense di ridurre la competitività economica globale e l’influenza politica di Pechino, insieme a una pesante assertività strategica cinese nei mari adiacenti al Paese e nella penetrazione dei mercati, è rimasta inalterata durante l’attuale emergenza. Almeno fino a novembre 2020, l’erosione del quadro multilaterale sarà perseguita a livello politico, come dimostrano le ultime decisioni.

In ogni caso, dal punto di vista offerto dal libro “Shaping Security Horizons – Strategic Trends (2012-2019) ”, questa competizione è sfortunatamente meno preoccupante di altri due pericoli su scala globale: un’ulteriore pesante crisi economica e finanziaria nel 2020 e la possibilità di una grande guerra mondiale, se le dinamiche di globalizzazione e deglobalizzazione saranno gestite con negligenza dai più alti rappresentanti politici odierni.

Come giustamente sottolinea l’economista Nouriel Roubini, questa nuova crisi in corso è molto più rapida nel suo sviluppo, specialmente in termini di tempo (settimane invece di anni, cioè più veloce per due ordini di grandezza), e perché rappresenta un doppio shock sulla domanda e sull’offerta. Se la diffusione del virus non è soppressa energicamente e le misure di assistenza finanziaria a tappeto non saranno abbastanza rapide da colmare il divario di reddito perso dai cittadini comuni, la grave recessione rischia di diventare la più grande depressione economica globale, facendo sembrare insignificante la Grande depressione del 1929. Lo spettro del ricorso storico della fine degli anni Venti, che ha portato le dittature al potere in Europa sull’onda della depressione e poi alla guerra, è ben altro che una speculazione accademica, soprattutto se la chiamata alle armi potrebbe risultare attraente per democrazie che alla fine dei conti non sono più né opulente né egemoniche.

In conclusione: la pandemia è un fattore di stress globale, che per il momento ha pesantemente colpito strutture e dinamiche politiche già fragili, comprese le istituzioni internazionali, anche senza specifici sabotaggi nazionali.

La crisi era nell’aria, ma i suoi concreti indicatori sono stati ignorati esattamente come nel 2006. Questo è ora la prova del fuoco per le democrazie e per un possibile ordine internazionale. Molti attori politici si sono comportati come se fossero soli, malgrado gli eventi ci abbiano dimostrato che nessuno è al sicuro da solo o può risolvere la crisi autonomamente. Ci troviamo infatti ad un punto di svolta, in cui solo la saggezza politica eviterà di prendere, come sonnambuli, il ben noto cammino verso la depressione e la guerra mondiali.


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