Qual è il fine ultimo della politica una volta liberata dalle sovrastrutture ideologiche che l’hanno strangolata nel ‘900 e che la soffocano oggi in forma di cascami inerti e inconsapevoli, ripetuti da attori politici stralunati senza sapere perché? A ben pensarci l’unico fine possibile non può che essere il ben-essere dell’uomo: la sua felicità. Riflettiamo, seguendo la scia dei filosofi illuministi, ma anche la traccia delle religioni e persino delle costituzioni, cosa ci può essere di più importante per una persona umana, deperibile, transitoria, tremula e precaria, gettata nella nebulosa dell’incertezza, se non ritagliarsi quel frammento di paradiso che è il suo momento di felicità?
Jefferson, uomo politico ma anche di pensiero, l’aveva capito a tal punto da codificarlo nella Costituzione americana, che porta inciso nel suo preambolo il catalogo dei principi cui si ispirerà la grande carta dei diritti: “tutti gli uomini sono dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili e tra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della felicità”. Non credo che esista in documenti dal valore costituzionale un’affermazione più intrisa di umanità e di senso pragmatico di questo preambolo jeffersoniano datato 1776.
Un documento figlio della fiducia nella storia e della proiezione verso il futuro dei pionieri nel Nuovo Mondo, che disseminarono di felicità tutte le loro carte. Solo che Jefferson andò oltre. Mentre, per esempio, nella Costituzione della Virginia anch’essa del 1776, la felicità dell’individuo veniva collegata alla ricchezza, al diritto di possedere un bene, quasi che solo la dimensione “patrimoniale” riuscisse a consentirla, la felicità jeffersoniana guarda ad orizzonti più vasti, esaltando il valore della libertà come spazio di ricerca della propria dimensione felice.
Ma la felicità fu di casa non solo tra i Padri Pellegrini americani, ma anche tra i rivoluzionari giacobini. Già la Dichiarazione del 1789 aveva scolpito nel suo preambolo la felicità di tutti come obiettivo finale della rivoluzione, principio che venne ribadito nella Costituzione del 1793, “il fine della società è la felicità comune”.
La felicità, che nello spirito rivoluzionario è in coppia con l’uguaglianza, si afferma, con le parole di Saint-Just nel rapporto alla Convenzione del 1794, come “ idea nuova in Europa”, fino a rappresentare un “bene sociale”. Potremmo continuare nell’affascinante itinerario della felicità tra le Carte ingiallite delle Costituzioni del passato, ma a questo punto potrebbe sorgere spontanea la domanda,che c’azzecca la felicità in questi giorni di segregazione sanitaria e, soprattutto che c’entra col primo maggio? A parte che la felicità c’entrerebbe sempre proprio perché è poca, con la festa del lavoro, in realtà c’entra assai.
Perché se il fine della politica sarebbe la felicità ( non solo dei politici, s’intende), quello delle costituzioni, che mettono in campo principi e strumenti per raggiungerla, pure. Anche la nostra, che comincia con un articolo che sembra farsi portatore di una certa enfasi sacrificale intorno al lavoro. Perché se la felicità, altro non è se non la condizione del ben-essere, inteso sia come dimensione spirituale che fisica, il lavoro altro non è se non il mezzo per raggiungere quella condizione. Provate a leggere la Costituzione con la premessa jeffersoniania e tutto prenderà la luce giusta. In fondo quando i rivoluzionari del settecento parlavano di felicità sociale, la intendevano come riscatto dalla miseria. E, visto che, per definizione, chi è in miseria non è uno che eredita beni, l’unico modo per uscirne dignitosamente è solo il lavoro. Dunque buon Primo Maggio e felicità a tutti.