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Investimenti vs sussidi, Italia come laboratorio politico. La bussola di Ocone

La politica, soprattutto quella democratica, è fatta di alternative: si fa politica là dove c’è possibilità di scegliere fra opzioni differenti e al limite opposte. In questo senso non è difficile immaginare che nei prossimi mesi la linea di frattura non solo fra le forze politiche, ma anche fra quelle sociali, correrà lungo una direttrice che concernerà le modalità di utilizzo dell’enorme liquidità (temo per lo più a debito) che arriverà nelle casse dello Stato (in primo luogo dall’Europa) o che lo stesso Stato mobiliterà per far fronte all’emergenza (almeno fino a quando il Patto di stabilità resterà sospeso).

Da una parte, avremo coloro che premeranno affinché la più parte della spesa vada a favorire gli investimenti, sia pubblici sia privati, per rimettere in moto la crescita e anche, in qualche modo, per ridisegnare il nostro futuro; dall’altra, coloro che insisteranno invece perché il denaro a disposizione sia utilizzato soprattutto in bonus e sussidi, per lenire almeno in parte le sofferenze delle fasce più deboli della popolazione ma anche per realizzare quell’utopia di un reddito universale di cittadinanza che superi quanto più possibile il divorzio fra capitale e lavoro.

In sostanza, anche questa volta l’Italia, come era avvenuto con il governo precedente “nazional-populista”, potrebbe far da apripista, o laboratorio politico, per sperimentare quello che in prospettiva si configura, secondo quanto suggerisce il professor Capozzi, come il nuovo cleavage della politica futura: che correrà, con tutte le sfumature del caso, lungo la linea che separa coloro che credono ancora nello sviluppo, e nel circolo produzione-consumo, e chi invece punta dritto su politiche di decrescita e nuova “sobrietà”.

Un accenno di questa nuova dialettica politica si è avuta proprio in questi giorni. Finora, il governo ha privilegiato in maniera netta la politica assistenzialistica e dei sussidi, che l’Italia ha fatta propria almeno dai tempi del bonus di 80 euro in busta paga distribuito da Matteo Renzi. Lo ha fatto, indipendentemente dai risultati concreti (che per lo più non si sono ancora visti), sia nel decreto “Cura Italia”, ove si trattava veramente di intervenire in modo rapido sulle “ferite” inferte al corpo sociale dal lockdown, sia, in modo più sorprendente, nel “Rilancio Italia”. Il perché di questa scelta non è difficile da comprendere: in questo come nel precedente governo è maggioritaria la componente grillina, che ha fondato la sua ideologia economica proprio sulle idee del “reddito di cittadinanza” e, in alcune sue non irrilevanti frange, della “decrescita felice”. In più, gli alleati attuali dei Cinque Stelle, eccezion fatta per la componente renziana, sono decisamente fautori di politiche redistributive e socialisteggianti che ben si legano, almeno fno ad una certa misura, con il “populismo” grillino.

Non è perciò privo di significato che in direzione contraria, in funzione di “resistenza” e vero “rilancio”, si stiano muovendo tutto un insieme di forze politiche ma soprattutto sociali. Dal primo punto di vista, si può dire che c’è una linea sviluppista e industrialista che corre dai renziani a Forza Italia e che, un po’ per convenienza politica un po’ per naturale maturazione, sembra cominciare ad avere il predominio anche all’interno della Lega, che, nella declinazione salviniana, decisamente postideologica, non è stata finora affatto immune da politiche un tempo considerate “di sinistra” (si pensi alla cosiddetta “quota cento”).

Molto più significativo è però l’aggregarsi, in funzione tutto sommato anticontiana, delle forze sociali e del mondo produttivo sulla base di una piattaforma che punta dritto ad una politica di investimenti e crescita per l’Italia. Non è dubbio che l’input di questo processo, che ha trovato una sponda molto rilevante nelle Considerazioni finali lette l’altro ieri dal Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, e concordate sicuramente con il suo predecessore Mario Draghi, sia venuto dalle dichiarazioni fatte nell’ultimo mese dal nuovo presidente di Confindustria, Carlo Bonomi. Un processo che ha messo capo ieri a un documento congiunto a firma di Confindustra, Abi, Alleanza delle Cooperative, Confapi, Confagricoltura, Ance, Cia, Coldiretti e Copagni: cioè la più parte del mondo produttivo italiano. Per una sorta di coazione a ripetetere, legata ad un’altra stagione politica, alcuni commentatori, e gli stessi organi di comunicazione (sempre alla ricerca dello scoop), si sono soffermati sulla richiesta presente nel documento di utilizzare ogni tipo di risorsa proveniente dall’Europa, compreso il Mes, per far fronte alla drammaticità della crisi, interpretandola addirittura come “antinazionale”.

In verità, l’elemento politico rilevante consiste in una convergenza mai prima avvenuta di forze sociali molto diverse fra loro ma anche storicamente solide: la vera “colonna vertebrale” del Paese. Una sorta di nuovo “blocco sociale” che cercherà sponde e interpreti nel mondo politico e che forse contribuirà a ridisegnare l’attuale assetto del potere in Italia.

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