Il sequestro di persona è una condotta antisociale. Gli antisociali non conoscono sentimenti come gratitudine e rimorso, mentre frequentemente provano rabbia, noia, disprezzo e indifferenza. Sono tendenzialmente prepotenti, aggressivi, impulsivi, incapaci di amare e portati a sfruttare chiunque possa soddisfare i loro bisogni. Tendono a mostrare un comportamento irritabile e aggressivo verso gli altri, e a essere cinici e sprezzanti nei confronti dei sentimenti e delle sofferenze altrui. Chi subisce un sequestro viene sottoposto a una durissima violenza psicologica e fisica. Questo è quello che i 65 nostri connazionali hanno dovuto probabilmente subire nei sequestri che li hanno coinvolti dall’inizio di questo millennio, inaugurato il 17 ottobre 2001 con il sequestro di padre Giuseppe Pierantoni e terminato il 9 maggio 2020 con la liberazione di Silvia Romano.
La storia di Silvia Romano è una storia particolare e mediaticamente rilevante. Rilevante perché donna, per il lungo periodo passato nelle mani di una spietata organizzazione terroristica, e perché convertita. È proprio su quest’ultimo aspetto, per una certa ostentazione e per una pessima comunicazione, che si è scatenata la rabbia degli ultimi giorni che ha invaso il mondo del web e, in alcuni casi, anche della carta stampata. Ma non voglio giudicare i sentimenti di tanta gente che, per ragioni diverse, si dividono il campo in pro e contro, né tanto meno entrare nell’agone politico, o peggio ancora religioso, ampiamente tutelato in primis dalla nostra Carta costituzionale.
Da tecnico esprimerò solo delle convinzioni e cercherò di fare un ragionamento senza costrizioni né condizionamenti ideologici. La prima riguarda strettamente Silvia Romano, la seconda un incompreso e misconosciuto contesto giuridico che governa il mondo dei sequestri. Spero che entrambe le cose ci consentiranno di ricondurre a un ragionamento pacato e, se possibile, aprire uno squarcio alla conoscenza.
Silvia sta vivendo quello che Bruno Bettelheim, psicoanalista ebreo deportato nei campi di Dachau e Buchenwald, ha definito “la sindrome della identificazione”. Bettelheim sostiene che: “Quanto più assoluta è la tirannia e quanto più debole è diventato l’individuo, tanto più forte sarà in lui la tendenza a recuperare le proprie forze facendosi parte della tirannia, per godere così della sua potenza. Accettando tutto questo si può acquistare o riacquistare una certa integrazione interiore mediante il conformismo. Ma il prezzo che si deve pagare è l’identificazione senza riserve con la tirannia, in breve la rinuncia alla propria autonomia”.
E quindi il sequestrato si identifica con il sequestratore e ne condivide i valori. A livello inconscio attua un meccanismo che lo fa sentire meno inerme. Se adattiamo le riflessioni di Bettelheim alla Silvia Romano forse possiamo capire, non tanto la scelta, quanto il suo atteggiamento che solo dopo un lungo processo di riadattamento potremo forse riuscire a giudicare.
Dal punto di vista giuridico, invece, le vicende legate ai sequestri di persona accendono i riflettori su una serie di norme che i viaggiatori e le aziende devono necessariamente conoscere. Parlo del dovere di protezione, della validità processuale del sito del ministro degli Esteri “Viaggiare Sicuri”, delle norme internazionali sul sequestro di persona e infine delle peculiarità relative alle polizze assicurative. Tutti temi di cui tutti parlano, ma senza un attento approfondimento della normativa esistente che pone tutta una serie di vincoli.
Secondo gli articoli 32, 35 e 41 della Costituzione italiana, l’articolo 2087 del codice civile, l’articolo 28 del D.lgs. 81/2008, il datore di lavoro è tenuto a garantire al proprio personale tutte le misure di sicurezza necessarie comprese quelle relative ad eventi esterni all’attività lavorativa, quali ad esempio un’aggressione, un attentato ovvero un rapimento (i cosiddetti “rischi di security”).
Tali adempimenti sono a carico del datore di lavoro e, come meglio precisato dall’art. 3 comma 12-bis del D.lgs. 81/2008, si applicano anche nei confronti dei volontari. Questa previsione è stata dettagliata dalla Commissione degli interpelli (Interpello n. 8 del 27 marzo 2014), secondo cui qualora i volontari svolgano la loro “prestazione nell’ambito di un’organizzazione di un datore di lavoro, questi è tenuto a fornire al soggetto dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti negli ambienti nei quali è chiamato ad operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate in relazione alla sua attività”. Ne deriva che, nel caso in cui un proprio volontario rimanga vittima di un sequestro di persona, anche il legale rappresentante della Onlus di riferimento potrebbe essere ritenuto responsabile, penalmente e civilmente, senza considerare una possibile sanzione ai sensi del D.lgs 231/2001 e un prevedibile danno di immagine legato alla scarsa capacità di tutelare il proprio capitale umano.
In quest’ottica, appare necessario verificare quale affidamento è possibile fare sul valore probatorio del sito internet del Maeci “Viaggiare sicuri”. L’art. 19-bis della legge 17.4.2015 nr. 43 testualmente recita: “Il ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, avvalendosi anche del contributo informativo degli organismi di informazione ai sensi della legge 3 agosto 2007, n. 124, rende pubblici, attraverso il proprio sito web istituzionale, le condizioni e gli eventuali rischi per l’incolumità dei cittadini italiani che intraprendono viaggi in Paesi stranieri. Il Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale indica altresì, anche tramite il proprio sito web istituzionale, comportamenti rivolti ragionevolmente a ridurre i rischi, inclusa la raccomandazione di non effettuare viaggi in determinate aree. Resta fermo che le conseguenze dei viaggi all’estero ricadono nell’esclusiva responsabilità individuale di chi assume la decisione di intraprendere o di organizzare i viaggi stessi”.
Appare pertanto evidente che le informazioni tratte dal sito della Farnesina possano essere utilizzate per orientare le scelte dei viaggiatori e non, invece, come sottolinea l’Autorità Giudiziaria, “per trarre informazioni attendibili sulla sicurezza di un Paese” (Tribunale Milano, 16 Giugno 2015. Est. Martina Flamini).
Dobbiamo poi considerare un altro elemento che impatta sulle vicende dei sequestri: il divieto posto dal diritto internazionale a ogni forma di finanziamento del terrorismo, che trova un proprio fondamento nella Convenzione di New York del 1979 e nel G7 di Parigi del 1989, nonché nella fondazione del Financial action task force (FATF) a cui si affianca nel 2011 il Global counter terrorism forum (GCTF). Tali organismi sono volti a coordinare le politiche degli Stati nel contrasto del fenomeno tramite provvedimenti, come il memorandum di Algeri del 2012, che contiene indicazioni e good practice contro i sequestri di persona di matrice terroristica. Inoltre, le risoluzioni n. 2161 e 2170 del 2014 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite vietano agli Stati membri di finanziare organizzazioni terroristiche, qualsiasi sia la causa della corresponsione, incluso il pagamento del riscatto.
L’ordinamento italiano, tra l’altro, punisce il favoreggiamento reale. L’art. 379 c.p. prevede che chiunque aiuta taluno ad assicurare il prodotto o il profitto o il prezzo di un reato (in questo caso pagando un riscatto), è punito con la reclusione fino a cinque anni. In coerenza con tale norma, il decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 marzo 1991, n. 82 vieta l’assicurabilità del rischio da sequestro di persona. Pertanto, non possiamo pagare e non possiamo assicurare.
Per converso, i Paesi anglosassoni consentono ai cittadini di stipulare polizze di assicurazione (polizze “Kidnap and Ransom” – K&R), sebbene esse perdano espressamente di efficacia allorquando il sequestro abbia una matrice terroristica, nel rispetto dei trattati internazionali sul divieto di finanziamento del terrorismo. Ne discende che l’unico modo a disposizione del datore di lavoro per prevenire in maniera consolidata il rischio di un rapimento di matrice terroristica sia di investire nella conoscenza sul contesto locale di riferimento e sulle contromisure ottimali da adottare sulla base di procedure aziendali consolidate e rispondenti alle best practice di settore.