Se la fase iniziale della pandemia poteva aver illuso qualcuno, le ultime ore hanno confermato che le culture wars negli Stati Uniti non si fermano.
Una, tra le altre, fa da sfondo all’imminente confronto politico-elettorale che dominerà l’agenda dei prossimi mesi: quella che ruota attorno alla religione e al ruolo dei gruppi religiosi nella politica statunitense.
Il cardinale di New York Timothy Dolan è sul banco degli imputati per aver partecipato a una teleconferenza con il presidente Trump e per averlo poi elogiato nel corso di una intervista data a Fox News. L’accusa nei confronti di Dolan è chiara: ha esplicitamente e direttamente legato le posizioni della Chiesa Cattolica a quelle del presidente.
L’atto d’accusa è stato reso pubblico con una lettera firmata da oltre mille fedeli cattolici. La teleconferenza con la Casa Bianca era stata organizzata per portare all’attenzione del presidente il momento di crisi che, a causa del coronavirus, stanno vivendo le scuole cattoliche. Trump non ha perso l’occasione per sottolineare la necessità di una sua rielezione in quanto una vittoria di Biden avrebbe, a suo modo di vedere, sicuramente comportato un deterioramento delle posizioni cattoliche rispetto ad alcune questioni come l’aborto, la libertà religiosa e le scuole confessionali.
Trump ha inoltre sottolineato la sua azione portata avanti mediante atti amministrativi che ha consentito un margine molto più ampio per l’azione politica dei gruppi religiosi che in precedenza rischiavano di perdere le esenzioni fiscali in caso di un coinvolgimento troppo diretto nelle campagne elettorali.
Sean Michael Winters, sul National Catholic Reporter, è arrivato a scrivere che il cardinale Dolan si è dimesso da “leader spirituale della capitale del mondo libero per dedicare tutte le sue energie al suo nuovo lavoro di co-chairman del comitato per la rielezione del Presidente”.
Dolan ha evidenziato come le stesse critiche gli vengono rivolte da fedeli ed organizzazioni vicine al mondo repubblicano a causa della sua collaborazione con l’amministrazione progressista di Bill De Blasio nella gestione della pandemia nella città di New York. Ha inoltre richiamato la necessità, e il dovere, di dialogare con tutte le parti dello schieramento politico al fine di perseguire il bene comune perché alla fine “dobbiamo fare gli gnocchi con quello che abbiamo”.
Le culture wars tagliano in due solo la società statunitense, ma anche le stesse confessioni religiose. Questa vicenda segnala però il peculiare ruolo che le organizzazioni religiose rivestono in quel contesto politico. La loro mobilitazione è in grado di risultare decisiva in una campagna elettorale e lo sarà ancora di più dopo alcune iniziative amministrative di Trump che consentiranno di mobilitare ulteriori risorse nel prossimo autunno.
C’è una strana ironia nel fatto che un politico simbolo dell’edonismo materialista sia diventato il protettore della destra religiosa. Lo aveva denunciato pubblicamente Russell Moore, teologo e pastore evangelico, nel tempio intellettuale della destra religiosa statunitense: la sede della rivista First Things a New York. Il 25 ottobre 2016, invitato a tenere l’annuale Erasmus Lecture, Moore denunciava l’incompatibilità di Trump con i principi del conservatorismo religioso. Sappiamo come è andata a finire.
Sappiamo anche come andrà da ora in poi: vedremo una campagna elettorale con campi sempre più “divisi da Dio”, come ha titolato di recente il New York Times. Le culture wars continuano.