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Perché riaprire (subito) la scuola. Lo spiega Pennisi

Oramai la decisione è stata presa, anche in quanto – si dice a Viale Trastevere dove ha sede l’imponente dicastero – l’anno scolastico sta volgendo al termine. Su decisioni molto costose per tutti, si potrebbe tornare indietro, soprattutto quando c’è evidenza internazionale che suscita perplessità. O si potrebbe cercare di mitigarle, come fece Singapore nel 2003 quando chiuse le scuole per due settimane (non per quattro mesi) a ragione dell’epidemia della Sars (altro virus proveniente dalla Cina).

Andiamo con ordine. Non so se a Viale Trastevere venga letta la letteratura internazionale in materia dei costi e dei benefici (per gli individui, le famiglie e la collettività) della chiusura delle scuole. È rimasto un mio vezzo da quando in Banca mondiale dirigevo una divisione responsabile del finanziamento di sistemi scolastici (gli ultimi nostri “clienti” europei furono la Spagna e l’Irlanda) e dagli anni in cui collaboravo con l’Unesco alla stesura del World Education Report. Una trentina di anni fa ho scritto anche un libro in materia (disponibile solo in inglese) e con George Psacharopoulos mi dilettai a calcolare i tassi di rendimento (sia agli individui sia alla società) dell’istruzione universitaria in Italia.

Comprensibile che nell’onda di una pandemia giunta come uno tsunami, si sia scelto di chiudere tutto, anche le scuole, nel timore che le aule diventassero focolai di infezione per gli allievi e gli altri. Meno comprensibile che di fronte all’evidenza che i più giovani raramente vengono attaccati dal virus ed ancora più raramente ne sono portatori sani, nella Fase 2, la giovane ministra non sia andata a Palazzo Chigi con energia e determinazione sbattendo i pugni sul tavolo ed insistendo su “prima la scuola”. Prendendo ovviamente le necessarie cautele, quali la riduzione per un periodo di orari e di classi per permettere distanziamento tramite alternanza e monitorarne gli effetti.

La chiusura costa a tutti, soprattutto agli allievi, e specialmente a coloro di famiglie a basso reddito (a cui Viale Trastevere dovrebbe essere sensibile). Il ministero dell’Istruzione della Norvegia ha calcolato, “prudenzialmente”, che in questo anno 2020, la chiusura di un giorno di scuola costa mediamente (a tutti i livelli) 809 corone (ossia $ 170) in termini di reddito perduto per il resto della vita, nell’ipotesi che si studi a casa, pure con il supporto di nuove tecnologie telematiche, e apprendano la metà di quanto imparano in classe grazie ai docenti e soprattutto all’interazione con i compagni. Il costo pesa soprattutto su coloro che provengono da ceti a basso reddito. Non solo l’istruzione on line non sostituisce a pieno l’aula (in Corea, anche essa travolta dallo tsunami Covid-19 sono stati organizzati corsi speciali per gli insegnanti appena il lockdown ha incluso, per un mese, la scuole), ma nella stessa Olanda, Paese ad alto reddito medio e con differenziazioni sociali relativamente modeste e con poco digital divide è stato stimato che la chiusura e la sostituzione dell’aula con l’online blocca l’ascensore sociale. Lo sottolinea anche la Education Charity Foundation in Gran Bretagna sulla base di un’analisi comparata di vari Paesi.

Ci sono modi per ridurre questi costi. In Corea si è dato la priorità alla riapertura delle scuole: il 9 aprile il 98% degli allievi erano in classe. Nel 2003, a Singapore le scuole sono state chiuse per due settimane – come si è detto – di fronte alla Sars, ma le vacanze estive sono state accorciate di due settimane e le scuole riaperte per recuperare il tempo e l’apprendimento perduto. Il recupero – afferma uno studio Ocse – è più facile nei sistemi in cui una parte importante dei programmi (ben il 40% in Paesi come l’Estonia ed il Giappone) è affidata all’inventiva di presidi, insegnanti e studenti che in quelli (come Francia, Italia e Spagna) che devono eseguire protocolli ministeriali. Quindi proprio in questi ultimi, occorre minimizzare le chiusure allo stretto necessario.

Quale è questo stretto necessario? In Norvegia due specialisti dell’Università di Oslo, Mette Kalager e Michael Bretthauer, stanno conducendo uno studio sperimentale: in un distretto, le scuole (iniziando dalle materne ed andando via via agli altri livelli) riaprono con metà degli studenti ad un distanziamento di due metri ed in un altro ad aula piena e con un distanziamento di un metro. Analisi del siero e tamponi dicono se ci sono differenze di infezioni, anche allo stato latente. Sino ad ora, hanno tutte dato risultati negativi: ci si prepara alla riapertura di tutte le scuole ed al recupero nei mesi estivi.

Cosa fare? Al motto di “prima la scuola”, organizzare subito la riapertura, con le dovute cautele ed utilizzando pure il potenziale delle scuole paritarie (che sovente hanno maggiori spazi di quelle statali e comunali) ed estendere l’anno scolastico a tutto luglio per recuperare il tempo e l’apprendimento perduti per evitare che gli italiani, soprattutto i meno favoriti, restino indietro.

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