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Esserci o non esserci? Panarari legge gli stili di comunicazione di Conte e Guerini

In molti, a partire da Formiche.net e Il Foglio, hanno evidenziato due stili comunicativi diversi e opposti in occasione dell’arrivo all’aeroporto di Ciampino di Silvia Romano, la cooperante rapita in Kenya e rimasta per un anno e mezzo nelle mani dell’organizzazione terroristica Al Shabaab. Da una parte la comunicazione quasi ossessiva del Movimento 5 Stelle con il premier Giuseppe Conte e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio presenti sul luogo. Dall’altra quella più istituzionale del Partito democratico, in particolare del ministro della Difesa Lorenzo Guerini, assente nell’occasione. Una differenza evidenziata anche da Filippo Sensi, ex portavoce dei premier dem Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, in un tweet: “E poi c’è lo stile di Lorenzo Guerini”.

Formiche.net ne ha parlato con Massimiliano Panarari, sociologo della comunicazione, saggista e docente alla Luiss, editorialista de La Stampa e autore del libro Uno non vale uno. Democrazia diretta e altri miti d’oggi (Marsilio, 2018).

Come valuta la comunicazione del governo sul caso di Silvia Romano?

La gestione comunicativa del rientro della cooperante, una notizia bellissima, ha evidenziato una seria di criticità. È in qualche modo il punto di arrivo di una divaricazione nella gestione di alcune tematiche della politica estera italiana, soprattutto su temi di sicurezza nazionale e il posizionamento del Paese nel sistema delle alleanze internazionali.

Ha parlato di una divaricazione. In che senso?

Da un lato abbiamo una forte spinta comunicativa ai limiti dell’ossessione, che vede una competizione tra il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, figli di una cultura comunicativa molto marcata che trova nella proiezione esterna, nella forma un elemento più importante spesso della sostanza. Dall’altro un understatement e una propensione a rispettare una serie di equilibri e silenzi comunicativi che sono molto importanti in materie così delicate da parte del ministro della Difesa, Lorenzo Guerini.

La comunicazione del ministro degli Esteri e del premier è in linea con la tradizione pentastellata?

Entrambi arrivano dalla tradizione politica del Movimento 5 Stelle, che ha trasformato la sua carica antipolitica in una spinta governista d’emblée, senza maturare un processo di istituzionalizzazione che esso stesso ha rifiutato giocando sull’ambiguità tra movimento, leadership forte ma non definita, assenza di catena precisa di comando e presenza di centri di influenza esterni (un’azienda privata, la Casaleggio associati). E questo crogiolo oggi è entrato nelle istituzioni, con un ruolo per giunta dominante. L’elemento di continuità in questo cambiamento — avvenuto nell’arco di pochissimi anni e che ha portato il Movimento 5 Stelle a essere la prima forza rappresentata in Parlamento, con un ruolo decisivo anche nella gestione di questa crisi pandemica — è per l’appunto la centralità della comunicazione e della propaganda. Sulla base di un retaggio ideologico, quello della trasparenza, e di un’idea di centralità della costruzione di un consenso — che è volatile e volubile — la dimensione della comunicazione fa premio rispetto a qualunque altro elemento.

Lo abbiamo visto anche nella gestione del rientro di Silvia Romano? 

Sì. Da due punti di vista: la questione della sicurezza e il fatto che la guerra terroristica sia innanzitutto comunicativa — e non è un fatto recente, basti pensare agli anarchici dell’Ottocento. E un’esposizione mediatica così forte rischia di regalare cartucce propagandistiche ai terroristi. Per questo, l’ansia prestazionale comunicativa degli esponenti del Movimento 5 Stelle ha trasformato tutto questo in un problema in un Paese che già tra attraversando le difficoltà di questa crisi pandemica. La sobrietà e la gestione senza toni sopra le righe sarebbero state estremamente più opportune.

Arriviamo quindi alla comunicazione di Guerini…

Esatto. In questo contesto spiccano la mancata presenza del ministro della Difesa e la continuità di uno stile comunicativo molto sobrio e istituzionale, che si addice a chi ha a che fare con la sicurezza nazionale e l’esercizio della forza, basato sulla discrezione e il controllo della situazione. È la comunicazione del premier e del ministro degli Esteri che ha offerto lo spazio a un diverso modello non urlato, che non cavalca l’emozione e che può presentarsi come un punto di ancoraggio e riferimento in una fase che si preannuncia molto difficile anche per quanto riguarda lo spirito delle democrazie liberal-rappresentative.

In che senso?

Dall’uso della decretazione d’emergenza alla limitazione delle libertà personali, questi processi che vanno contro il senso della democrazia liberale possono essere accettati nella misura in cui vengono definiti nel tempo, spiegati, argomentati nel nome di un bene superiore, in questo caso la lotta alla pandemia e la tutela della salute. Ma nel momento in cui queste restrizioni — che producono anche una serie di aggravamenti della situazione economica e sociale — vengono prolungate e non si ricostruiscono nel Paese fiducia, prospettiva e senso del futuro, la democrazia liberale, che è inseparabile dall’idea della società aperta, delle libertà individuali e del mercato, è in difficoltà. E rispetto a questo abbiamo visto diverse forme di sbavature che minano non soltanto il nostro quadro di relazioni internazionali ma anche la nostra visione della democrazia liberale e rappresentativa. Penso che tutti coloro che hanno a cuore la democrazia liberale debbano preoccuparsi di tutta la retorica sull’efficienza del modello asiatico, cioè delle autocrazie illiberali nella lotta alla pandemia, cosa tra l’altro non vera in termine scientifici.

Torniamo al premier Conte. Ieri sul Sole 24 Ore il professor Roberto D’Alimonte osservava alcune affinità tra lui e uno dei suoi predecessori, Romano Prodi, per i loro sforzi a unire due mondi molto lontani fra loro. Che cosa ne pensa?

Il premier Conte sa di essere l’elemento di sutura, in un contesto di grande scompaginamento del quadro politico, di un fronte “contro la destra populista”. Ma in Italia assistiamo a uno scenario inedito: in nessun Paese al mondo vediamo la presenza di una forza populista di governo così come di una forza populista di opposizione, entrambe decisive nei numeri. Conte coltiva un’ambizione riconducibile al modello prodiano, una figura senza partito che vuole fare da anello di congiunzione tra due mondi. Ma le differenze sono profonde dal punto di vista politico. Il premier, che insiste molto sulla comunicazione, vede però una finestra da cogliere per fare da primo attore in un contesto in cui le bocce sono in grande movimento. E per altro si fa forza di una serie di ripetute dichiarazione di Nicola Zingaretti e di una parte del Partito democratico che lo aveva fotografato come il leader di un campo progressista.

Ma possiamo davvero chiamarlo campo progressista?

Naturalmente no. La componente populista è troppo forte e la cultura di governo che si esprime attraverso quelle posizioni che un tempo avremmo definito di centro liberale-moderato è molto minoritaria nella maggioranza. Fattori che la crisi pandemica ha evidenziato in maniera chiarissima.

Esiste una continuità comunicativa tra il ministro Guerini e il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella?

Mi pare ci sia un’assonanza dal punto di vista della cultura e della tradizione politiche, che ci sia un’idea molto forte del ruolo sobrio e fermo delle istituzioni, specie in momenti di crisi come questo, per evitare lacerazioni. Provengono da una cultura politica collocata in un quadro costituzionale e politico che a lungo è stato un elemento di presidio democratico e istituzionale del Paese nell’ambito dell’atlantismo e dell’europeismo. A tal proposito è sufficiente leggere le parole del ministro Guerini, pronunciate in un contesto difficile come la pandemia, per la fine della missione russa in Italia: frasi molto istituzionali e di ringraziamento nel modo dovuto, che però hanno ribadito con nettezza la nostra collocazione internazionale. Altro tema di politica estera a cui si può applicare questo ragionamento è la Cina, verso cui il Movimento 5 Stelle dimostra particolare consonanza.

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