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L’eterno dilemma col terrorismo: negoziare o no? L’analisi di Marcovina

Di Marco Marcovina

I recenti fatti di cronaca suggeriscono l’opportunità di riassumere ciò che la letteratura scientifica ci dice sull’opportunità di negoziare con organizzazioni terroristiche. Non si vuole qui analizzare il pur centrale aspetto morale, centrato sui potenziali impieghi dei soldi dei riscatti o del perché uno Stato il cui codice impedisce il pagamento di riscatti in Patria, lo consideri un’opzione all’estero. L’analisi verte invece sull’aspetto strategico, cioè, in sintesi, se negoziare serva a qualcosa e se alimenti il fenomeno, oppure no.

La letteratura non è univoca su questo tema. Per inquadrare la questione occorre distinguere tre variabili. Primo se si tratta di negoziazioni tattiche, per esempio per la liberazione di ostaggi, oppure di natura strategica, tese a porre fine al fenomeno, come quelle, per esempio, tra lo Stato britannico e l’Ira.

Secondo, occorre cercare di classificare le organizzazioni terroristiche in base ai motivi che le animano. Studi psicologici su terroristi catturati indicano che, sebbene tendano a presentare con una maggiore frequenza determinati tratti psicologici, sono in genere individui, in senso clinico, mentalmente sani. A questo punto la letteratura si divide in due grandi scuole sulle motivazioni delle organizzazioni terroristiche. Secondo la scuola “dell’interazione strategica”, il terrorismo paga, nel senso che è uno strumento che alla lunga consente a un gruppo debole di estorcere concessioni politiche a uno Stato, o persino di destabilizzarlo, creando le condizioni per un cambio di regime. La percentuale di successo magari è piccola, la probabilità di essere sconfitti alta, ma è probabilmente sufficiente rendere la scelta allettante per un gruppo privo di altri mezzi. Secondo questa scuola, persino il terrorismo suicida, dati alla mano, si è dimostrato efficace nell’estorcere concessioni politiche.

L’altra scuola di pensiero, che potremmo definire “sociodinamica”, ritiene che le organizzazioni terroristiche derivino da un processo di progressiva radicalizzazione di movimenti di protesta, che si autoalimentano fornendo ai propri membri guadagni di processo: identità, senso di appartenenza a un gruppo, guadagni occasionali e riconoscimento politico. La trasformazione di un alienato in un terrorista avverrebbe mediante un progressivo incapsulamento all’interno dell’organizzazione e un parallelo distacco dalla realtà esterna. Non è opportuno essere troppo manichei nello sposare una scuola o l’altra. In ogni organizzazione esiste una tensione tra le due classi di motivazioni. A questo proposito, si noti che l’Ira poneva grande attenzione nello scartare reclute motivate dal trovare un’identità nel gruppo, a dimostrazione che il conflitto tra le due motivazioni, non solo era presente, ma anche razionalizzato. Inoltre le motivazioni e la visione di un leader e di una pedina sono ovviamente diverse.

La terza variabile da considerare è la struttura del gruppo in questione; cioè se si tratta di un gruppo coeso, controllato da una forte disciplina interna, o di una galassia di gruppi, in genere in competizione tra loro.

Per quanto riguarda negoziati di natura strategica, cioè volti a porre fine al fenomeno, la letteratura indica che in genere tendono a fallire e che altri metodi, primi fra tutti l’eradicazione manu militari, e la negazione sistematica degli obiettivi politici desiderati, sono in genere più efficienti. Si parla, in base all’analisi della casistica disponibile, di una percentuale di successo bassa. Su un 17% di casi lo Stato sceglie di negoziare, e su questi la violenza cessa del tutto solo nel 30% dei casi, mentre si stabilizza in qualche modo in un altro 27%. Il fatto che quindi nel 73% dei casi la trattativa non avvenga è di per sé eloquente: o lo Stato ritiene di avere mezzi migliori per vincere, o di non poter negoziare (possiamo negoziare la distruzione di solo metà della delle statue di Buddha?) oppure è la stessa organizzazione che non vuole negoziare. Se invece si decide di negoziare, bisogna dunque essere consapevoli che le probabilità di insuccesso sono alte; la violenza non si arresta nel 70% dei casi.

Questi dati sembrano suggerire che la negoziazione debba essere l’estrema ratio, dopo che altri meccanismi più efficaci sono falliti. L’organizzazione con cui potrebbe avere senso tentare un negoziato strategico è un’organizzazione monolitica e ben disciplinata, questo per avere una certa garanzia che, una volta trovato un accordo, il cessate il fuoco sia rispettato. La seconda condizione è che quest’organizzazione dovrebbe avere obiettivi in un certo senso razionali, cioè essere più inquadrabile nel modello dell’interazione strategica, “concepibili” da uno Stato di diritto e possibilmente legati a un territorio specifico. Un esempio potrebbe essere l’Ira irlandese. Il negoziato diventa invece problematico con organizzazioni animate da ideologie universalistiche (impossibilità di trovare un terreno di incontro), dalla struttura fluida (si troverà spesso una fazione disposta a continuare), oppure chiaramente motivate dai guadagni di processo (negoziare le alimenta). Per quanto riguarda i negoziati strategici, la scuola dell’interazione strategica pone l’accento sull’ottenimento di una soluzione politica, quella sociodinamica su una soluzione che privilegi una prospettiva personale ai membri dell’organizzazione.

Veniamo ora ai negoziati tattici, come quelli per la liberazione di ostaggi. Se si adotta il punto di vista “dell’interazione strategica” quel che conta è privare l’organizzazione della speranza di ottenere risultati politici o di convincerla che ottenerli comporti altri costi politici inaccettabili (vale la pena di ripetere: sempre ammesso che non si riesca a eradicarla prima con la forza). In quest’ottica, negoziati tattici, essendo atti che non cambiano il quadro generale a livello strategico, possono essere condotti se la valutazione delle circostanze specifiche li ritiene opportuni. Questo ovviamente non vuol dire che siano scelte di poca importanza: sebbene non cambi la situazione strategica, finanziare un’organizzazione terroristica può avere implicazioni tremende in termini di vite umane. Nell’ottica della scuola sociodinamica, invece, il quadro strategico tende a non esistere, essendo solo la razionalizzazione ex-post di motivazioni sottostanti, per cui i negoziati tattici in genere sono scelte che alimentano il processo di cui si nutre l’organizzazione.

Rimane da analizzare un argomento spesso utilizzato per opporsi a qualsiasi tipo di negoziato: negoziare insegna ai terroristi che la loro attività paga e quindi alimenta il fenomeno. La letteratura oggi disponibile suggerisce una risposta circostanziata. Non sempre negoziare alimenta altro terrorismo. Perché un’organizzazione apprenda, cioè integri della propria cultura collettiva, l’idea che gli Stati o un determinato Stato negozieranno sempre, deve fare un’inferenza basata su casi passati. Nel caso di negoziati strategici, non è un inferenza scontata. Per esempio, non è scontato che un’organizzazione terroristica di tipo islamico inferisca oggi che il governo britannico può essere portato a un tavolo perché decenni prima, in un altro contesto, ha scelto di negoziare un accordo risolutivo con l’Ira. Allo stesso modo, non è detto che un negoziato coi talebani sia considerato replicabile in altri contesti geografici. Dove invece l’argomento trova una maggiore validità, è nel caso di negoziazioni tattiche, in cui la lezione è immediatamente applicabile a tutte le organizzazioni che operano nello stesso contesto e in contesti simili.

Per concludere, citiamo uno che di eversione se ne intendeva. Lenin ripeteva che il più debole degli Stati è sempre più forte del più forte dei gruppi clandestini. Questi riescono a prendere il sopravvento solo quando lo Stato è in crisi e commette gravi errori. Forse il più grave di tutti è dubitare della propria forza e rinunciare a usarla quando serve.

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