Taiwan Semiconductor Manufacturing, il primo produttore al mondo di chip, ha deciso di realizzare una fabbrica di microchip in Arizona. I lavori di costruzione dovrebbe iniziare nel 2021 e la produzione dovrebbe essere avviata nel 2024: un investimento da quasi 12 miliardi che darà fino a 1.600 nuovi posti di lavoro e che produrrà i chip 5 nanometri più sofisticati. Con questa mossa — giunta poche ore prima della decisione Usa, rivelata dalla Reuters, di bloccare le spedizioni di microchip a Huawei —, il colosso taiwanese riequilibra la sua produzione tra Cina e Stati Uniti, tema già caldissimo per Washington ma surriscaldato ulteriormente dopo il coronavirus e gli allarmi sulle catene del valore.
Festeggia l’amministrazione statunitense: per il segretario al Commercio Wilbur Ross si tratta di “un altro segnale che l’agenda politica del presidente” Donald Trump “ha portato a una rinascita della produzione americana”. Il segretario di Stato Mike Pompeo ha dichiarato invece che i nuovi chip a stelle e strisce del colosso taiwanese alimenteranno tutto, dall’intelligenza artificiale alle stazioni 5G fino agli F-35.
Ma anche la stampa rende l’onore delle armi alla Casa Bianca. “Una vittoria per l’amministrazione Trump”, scrive il New York Times sottolineando gli sforzi del presidente repubblicano per rafforzare le catene di approvvigionamento tecnologico (ma non solo) troppo concentrate in Cina, con tutte le implicazioni ormai arcinote sulla sicurezza nazionale. Arisa Liu, analista del Taiwan Institute of Economic Research intervistata dalla Nikkei Asian Review (testata giapponese che in queste settimane sta dedicando molto spazio alle questioni del reshoring dalla Cina), sottolineando la richiesta di “made in America” del presidente Donald Trump a pochi mesi dalle elezioni presidenziali, ha spiegato: “Nell’era post coronavirus, diventerà più importante per gli Stati Uniti riportare a casa le catene critiche di fornitura di chip”. L’obiettivo finale degli Stati Uniti? “Continuare a dominare in campo tecnologica e non lasciare che la Cina li raggiunga”.
Solo tre giorni fa Alex Capri, visiting senior fellow alla Business School della National University di Singapore, analizzava sulla Nikkei Asian Review come l’industria taiwanese dei microchip sia stata presa in mezzo nella guerra tra Trump e Huawei. Un conflitto che interessa anche, come raccontato da Formiche.net, HiSilicon Technologies, azienda di semiconduttori interamente posseduta da Huawei e di cui Taiwan Semiconductor Manufacturing è uno dei principali fornitori.
La situazione di Taiwan e delle sue aziende, analizzava Capri, è assai complessa. Tra due fuochi — Cina e Stati Uniti —, in balia di questioni non soltanto economiche ma anche diplomatiche e di sicurezza nazionale. Il caso di Taiwan Semiconductor Manufacturing è esemplare: non può fare a meno della tecnologia statunitense ma neppure del mercato cinese (perché altri, come quello giapponese per esempio, non basterebbero nonostante l’interesse di Tokyo anche in chiave anti Cina e pro Usa). Per questo il colosso ha scelto di fare un regalo al presidente Trump e alla sua agenda a pochi mesi dal voto. Nella speranza che le misure dell’amministrazione statunitense non minino direttamente o indirettamente i suoi affari in Cina.