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Gli Usa verso una politica industriale? David McCormick dice di sì (e non solo lui)

Di Alberto Prina Cerai

Uno dei principali temi che ricorrerà frequentemente nei prossimi ed infuocati dibattiti alle presidenziali americane sarà quale ruolo l’amministrazione e le agenzie governative ricopriranno nell’era post-Covid. Se da una parte molto di questo dibattito sarà inevitabilmente dettato dal tasso di recupero dell’economia americana – che, secondo le ultime proiezioni del Fmi, è destinata a registrare un -5,9% per la fine dell’anno, per poi riassestarsi ad una crescita del 4,7% del 2021 – dall’altra parte la gestione della pandemia da parte delle agenzie federali non potrà che influire sulla fiducia nella Casa Bianca. Un recente sondaggio del Pew Research Center ha dimostrato infatti come una quota crescente di americani ritenga il coronavirus sempre più una concreta minaccia all’economia americana (88%) e alla sicurezza della popolazione (64%), senza evidenziare particolari differenze tra democratici e repubblicani.

Con un record di 20.5 milioni di posti di lavoro persi dall’inizio della pandemia alla fine di aprile e il picco di sussidi di disoccupazione, appare chiaro che le elezioni di novembre porteranno ad un durissimo scontro su come gestire la più grande crisi economica dal dopoguerra. Con un’inevitabile ripercussione sul capitale politico fino ad ora accumulato dall’attuale amministrazione. Tuttavia, se sul piano domestico Donald Trump dovrà fare i conti con una rinnovata spinta dei democratici sui temi economico-sociali, resi spinosi dalla crisi sanitaria, sul piano internazionale la crescente ostilità con Pechino potrà in parte fornire un utile capro espiatorio per concentrare l’attenzione degli americani sul “nemico” geopolitico. Vi è tuttavia un tema che sembra poter ritornare con grande forza d’urto nella politica americana, cavalcando quelle necessità e vulnerabilità che la pandemia globale ha portato alla ribalta, in grado di coprire le esigenze interne e di politica estera degli Stati Uniti a prescindere dal prossimo Presidente: la politica industriale.

UN FRONTE BIPARTISAN

La discussione indotta dalla crisi sanitaria, sulle conseguenze relative alla vulnerabilità delle supply chain in un’epoca di forte interdipendenza delle catene del valore e all’eccessiva dipendenza di materiale sanitario, prodotti finiti e minerali strategici dalla Cina, sembra poter ribaltare di segno una politica protezionistica che, sino alla cosiddetta “fase uno” della guerra commerciale tra Washington e Pechino, era di fatto stata concepita in termini principalmente difensivi. Non solo. Il tema del ruolo, o intrusione, del governo nell’economia americana è stato per lungo tempo una linea di faglia ideologica non indifferente tra democratici e repubblicani, con i primi spesso tra i principali sostenitori, dal welfare state alla regolazione del ruolo delle banche, mentre i secondi tra i più acerrimi nemici del “Big Government”.

Il contesto di oggi, con le conseguenze del decoupling seguito al lockdown mondiale, vede consolidarsi un’insofferenza politica sempre più bipartisan verso il concetto di “just in time” che aveva dominato il discorso politico e privato sulla globalizzazione. “Milton Friedman isn’t running the show anymore”, aveva dichiarato in una recente intervista su Politico Joe Biden, a riconfermare una connaturata attenzione dei democratici sul tema. Ciò nonostante, le conseguenze drammatiche della pandemia sono destinate a rimescolare le carte in tavola anche nell’agenda dei repubblicani. Tra le figure più sensibili sulla questione, quella di Marco Rubio, da poco nominato presidente della Commissione Intelligence del Senato. In un articolo di aprile apparso sul New York Times, il senatore della Florida ha rincarato la dose: “Negli ultimi decenni, i nostri leader politici ed economici, democratici e repubblicani, hanno fatto scelte su come strutturare la società – scegliendo di premiare l’efficienza economica sulla resilienza, i guadagni finanziari sull’economia reale, l’arricchimento individuale sul bene comune”. La realtà di oggi, continua il senatore repubblicano, mostra “tutte le conseguenze di questo ethos iper-individualista” e richiede una propensione sempre più urgente verso “una politica industriale pro-americana”. Già lo scorso dicembre, in un discorso tenuto alla National Defense University, aveva rimarcato i pregi nella storia del capitalismo americano di una collaborazione costruttiva tra pubblico e privato.

Queste considerazioni portano ad inevitabili riconsiderazioni strategiche sul ruolo che la Cina ha giocato e continuerà a giocare in campo commerciale e tecnologico. Due fronti su cui i policymakers americani dovranno attrezzarsi per sostenere la sicurezza nazionale, dal momento che, come ricorda un report della Brookings Institution, “le chiavi per la competizione economica sono la tecnologia e l’innovazione, che hanno implicazioni significative per la futura supremazia militare così come la prosperità commerciale”.

UN MONITO DA UN INSIDER

Come ai tempi della Guerra fredda, gli Stati Uniti sembrano rivivere, con le parole di Branko Milanovic, un secondo momento “Sputnik”. Non solo tengono banco i temi più scottanti, dal 5G alla ripresa economica. Questa volta è la Cina che, con una risposta efficace (seppur non così trasparente) alla pandemia, sembra voler offrire al mondo la bontà del suo modello autoritario per le sfide del XXI secolo. Inoltre, come un tempo l’Unione Sovietica, l’offensiva si fa multilivello: economica, tecnologica e ideologica. Quale risposta? In assenza di un George Kennan e di una teoria del contenimento, a suggerire la direzione della presente e futura politica estera statunitense, paradossalmente, il CEO del più influente hedge fund del mondo, Bridgewater.

Intervistato su Fortune, David McCormick ha rilanciato l’idea di una politica industriale americana che possa affrontare la sfida cinese. Laureatosi a West Point e veterano della guerra del Golfo, a motivare la sua convinzione la sua decennale esperienza al Dipartimento del Tesoro, del Commercio e alla Casa Bianca che lo ha convinto della necessità di far convergere nuovamente “sicurezza nazionale e sicurezza economica” sotto l’alveo protettivo del governo. “L’economia è diventata l’arena principale della competizione tra grandi potenze, data l’integrazione globale dei mercati, l’emergere di tecnologie generative e della pervasività del cyberspazio. Russia e Cina hanno riconosciuto questa realtà e integrato efficacemente le loro strategie economiche e di sicurezza, mentre gli Stati Uniti sono stati lenti ad adattarsi negli ultimi due decenni” ha scritto sulle pagine del Financial Times. Se il Covid-19 rappresenta un momento (forse) transitorio che ha già richiesto uno sforzo senza precedenti del governo federale per rispondere alla crisi economica, altre sfide come l’innovazione tecnologica, la capacità di attrarre investimenti e capitale umano sono destinate a rappresentare ben oltre terreni di mero dibattito politico alle presidenziali. “I legislatori dovrebbero comprendere che il costo di perdere il vantaggio dell’innovazione americana eccede di gran lunga l’investimento richiesto per mantenerlo”. E’ una quesitone di grand strategy, “a prescindere da chi vincerà a novembre”.

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