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Il virus oltre la fase 1. La lezione della Spagnola secondo Fasanotti (Brookings)

Di Federica Saini Fasanotti

Nella primavera del 1918, un nuovo tipo di influenza iniziò a diffondersi tra la popolazione – non è certo se nella contea di Haskell in Kansas (Stati Uniti d’America) o se in Francia, Vietnam o Cina – sicuramente non in Spagna, pur essendo passata alla storia come “Spagnola”. Ciò pare attribuirsi al fatto che la Spagna, non interessata dal conflitto mondiale, avesse mantenuto una maggiore libertà di stampa e di pensiero che agevolò la libera diffusione delle notizie.

Si sarebbe poi scoperto che essa era causata da un virus di tipo A, in grado di generare vere e proprie epidemie. Dagli Stati Uniti è molto probabile che il virus si sia mosso e abbia viaggiato su navi militari per sbarcare in Francia e in altri porti dalle acque fonde. La Prima Guerra Mondiale stava terminando, con il suo pesante bilancio di 14 milioni di morti. I paesi che avevano combattuto erano provati, le economie in gravi difficoltà, le popolazioni dell’intera Europa sfiancate. Ma il peggio doveva ancora arrivare.

Se in quella primavera furono rilevati solo degli isolati casi di polmonite, fu nell’autunno successivo che il virus, ormai mossosi in maniera sotterranea da nazione a nazione, emerse in una forma violenta quanto inaspettata, colpendo milioni di persone in tutto il mondo, su una popolazione globale che allora non superava il miliardo e 800 milioni di individui.

Fu uno tsunami, un’onda mortale che mandò in tilt gli ospedali di ogni continente, con una violenza che neanche il conflitto ancora in corso era stato in grado di produrre. E dopo quell’onda, ne arrivò un’altra, nell’autunno successivo, meno aggressiva, ma che perdurò sino alla primavera del 1919.

È difficile stilare una corretta statistica dei morti globali, ma la cifra più coerente, ed accettata da buona parte della comunità scientifica, pare essere sui 50 milioni. Solo l’Italia, il paese allora più colpito in Europa, perse 600.000 vite, tante quante quelle dei propri caduti nella Grande Guerra, che furono 650.000.

Il virus non risparmiò nessuno, ma si accanì – allora – soprattutto sui giovani, manifestandosi attraverso una tosse violenta che poteva sfociare in una polmonite fulminante, febbre alta, anche emorragica, mal di testa. I polmoni, riempitisi di pus, mutavano, “epatizzandosi”, divenendo cioè simili di consistenza al fegato e provocando una drammatica “sete d’aria” nelle vittime.

Più tardi, ad emergenza finita, ci si sarebbe accorti dei danni da esso provocati su altri organi, come la milza, i reni, il fegato e soprattutto il cervello.

Le somiglianze di quella pandemia, originatasi un secolo fa, con il nostro Covid-19 sono impressionanti, ma ci sono anche delle differenze importanti che meritano di essere rilevate.

Nel 1918 non fu fatto alcuno sforzo sistematico a livello nazionale per contenere il virus, che peraltro aveva un periodo d’incubazione più veloce (24-48 ore) di quello attuale (pare siano 5-14 giorni) e quindi la sua gestione venne lasciata alle amministrazioni locali e ai singoli cittadini.

Allora come oggi le regole del distanziamento sociale e della pulizia individuale rappresentarono le uniche barriere al contagio. E anche un secolo fa, medici, infermieri (allora per lo più donne) e tutto il personale sanitario impegnato in uno sforzo straordinario furono la categoria professionale più colpita, mentre gli ospedali andavano al collasso e la gente veniva rimandata a casa a morire.

Davanti a ciò, i governi di tutto il mondo – compreso quello degli Stati Uniti guidato da un presidente illuminato come Wilson – attuarono spesso una rigida censura, sottovalutando volontariamente la gravità dell’epidemia e, in certi casi, tentando persino di nasconderla. La stampa di allora fece il resto, mentendo e dando notizie confuse, nella speranza che tutto proseguisse nella norma e che, soprattutto, l’economia – già provata dal conflitto – non si fermasse.

La paura dei cittadini non venne recepita, ed essa si trasformò in sfiducia in chi li governava e, quindi, in terrore, facilitando la diffusione del virus. Gli unici luoghi in cui una trasparenza nell’informazione rese possibile che la popolazione rispondesse agli appelli della pubblica amministrazione furono quelli a cui nulla era stato nascosto.

Le città più colpite furono costrette a bloccare le scuole, a chiudere le attività commerciali e molte di esse, dopo aver riaperto, a causa di nuove ondate influenzali, si trovarono a dover fare marcia indietro. Successe una, due e anche tre volte in alcuni luoghi. Fu un lungo cammino, molto difficile, di cui poco è rimasto, ad esempio, nella letteratura di allora. Lentamente ci si riprese: era, ormai, il 1920. Velocemente, poi, quasi si dimenticò.

La pandemia causata dal virus N1H1, passata alla storia come “Influenza Spagnola” fu una tragedia sanitaria di dimensioni epiche, rimanendo insuperata nel suo livello di mortalità; ma per noi, oggi, essa assume un nuovo valore e un’importanza cruciale nel cercare di affrontare meglio il futuro.

Quali sono allora le lezioni che abbiamo imparato osservandola da un secolo di distanza?

In una pandemia non c’è un solo evento, ma varie ondate, tutte diverse fra loro in virulenza e manifestazioni cliniche.

È fondamentale, in questo senso, rendere partecipi i cittadini di ciò che sta accadendo, anche quando le notizie non sono buone, perché se la popolazione si fida, si lascerà guidare, come gli italiani hanno già dimostrato di saper fare.

Il sistema sanitario deve essere pronto ad affrontare un eventuale stato di emergenza con investimenti pianificati in questa direzione.

L’economia, a queste condizioni, non è più resa schiava dall’inefficienza del sistema, ma viene mantenuta libera di operare.

Il virus sta facendo il suo decorso. Ci vorrà tempo, ma anche questa pandemia, come tutte quelle che l’hanno preceduta, finirà. Una tale consapevolezza è fondamentale per non perdere di vista la luce alla fine del tunnel e i sacrifici che saranno richiesti a tutti per arrivarci.

Bisogna, come sempre, saper fare tesoro del passato per cercare di risolvere questa pandemia anche in tempi più brevi.

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