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L’Afghanistan alla prova (difficilissima) della pace. Intervista all’Amb. Pontecorvo

È il momento della verità per l’Afghanistan. Dopo l’accordo tra Stati Uniti e Talebani dello scorso febbraio, l’attesa è tutta per la partenza dei negoziati intra-afgani per avviare il processo di pace. Pesa però un livello di violenza da parte talebana che resta “inaccettabile”, con la minaccia Isis pronta a colpire e il Covid-19 a complicare lo scenario di sicurezza. È il quadro descritto a Formiche.net dall’ambasciatore Stefano Pontecorvo, alla guida dell’impegno (lato politico e civile) della Nato in Afghanistan da poco più di tre settimane. Su nomina del segretario generale Jens Stoltenberg, il diplomatico italiano ha preso il posto di Sir Nicholas Kay nel ruolo di Senior civilian representative dell’Alleanza nel Paese. Già ambasciatore d’Italia in Pakistan, conosce bene il contesto afgano, oggi alla prova della pace e della stabilità, obiettivo per cui l’Italia sta confermando il proprio impegno pari a 800 unità nella missione a guida Nato Resolute Support.

Ambasciatore, partiamo dai negoziati intra-afgani. A che punto siamo?

Siamo a un punto promettente e allo stesso tempo pericoloso. È il punto più vicino mai raggiunto negli ultimi anni ad avviare il processo di pace. Tranne una, si stanno avverando tutte le condizioni previste dall’accordo tra Stati Uniti e Talebani siglato lo scorso febbraio.

Ci spieghi meglio.

Da parte del governo afgano si stanno verificando tutte le condizioni previste, compreso il rilascio dei prigionieri, arrivato a 4mila soggetti su una richiesta di 5mila. Occorre rilevare che l’accordo prevede il rilascio “fino a 5mila prigionieri”, e che il governo afgano ha accettato la soglia massima senza discutere. Inoltre, nell’accordo non c’è specifica di alcuna lista, ma anche in questo caso, a dimostrazione di ulteriore commitment, il governo ha accettato la lista talebana. Restano alcune difficoltà giuridiche e politiche relative al rilascio di taluni soggetti, ma il problema maggiore è nei livelli di violenza da parte talebana. Essi restano assolutamente inaccettabili, creando problemi politici al presidente Ashraf Ghani sul rilascio di ulteriori prigionieri.

Che tipo di problemi?

Non può continuare a rilasciare soggetti quando membri delle forze armate e delle forze di polizia afgana vengono attaccati nel modo in cui vengono attaccati.

Mi pare di capire che la violenza sia ancora elevata.

Il livello è praticamente pari a quello dello scorso anno, con la differenza che allora c’era una dichiarata offensiva. Le condizioni per un processo di pace prevedono un abbassamento fino a un livello di violenza “accettabile”, termine non proprio consono quando si parla di violenza. L’ultima settimana è stata la più mortale per numero di vittime degli ultimi 19 anni, e ciò dimostra che non ci sono ancora condizioni adatte a garantire fiducia tra le parti.

Come sta gestendo la situazione il governo afgano?

Il governo ha individuato una squadra negoziale di 21 persone, tra cui quattro donne, che rappresentano l’intero spettro della società politica civile. Ha inoltre messo su un’infrastruttura (il Leadership Council) che darà le direttive politiche all’Alto consiglio per la riconciliazione presieduto da Abdullah Abdullah, ex primo ministro de facto, sotto cui agirà la squadra di negoziatori. C’è inoltre un segretariato che verrà assicurato dal ministero della Pace con gruppi di esperti in grado di coprire ogni singolo aspetto del processo di pace.

E dal lato talebano?

Si dichiarano pronti a iniziare le negoziazioni dopo il rilascio dell’ultimo dei prigionieri. Hanno anche loro l’obbligo di rilasciare fino a mille prigionieri (un rapporto di cinque a uno), ma si sono accorti dopo la firma dell’accordo che non ne avevano così tanti. Il governo afgano si è accontentato con realismo di avere intorno agli 800 prigionieri governativi rilasciati, e poi di una dichiarazione solenne da parte talebana di non disporre di altri detenuti.

Tra le condizioni dell’accordo Usa-Talebani, c’è per questi ultimi l’obbligo a rompere ogni legame con al Qaeda. È rispettata? E come si verifica?

C’è tutta una serie di meccanismi di controllo e intelligence che può intuire per dimostrare l’effettivo taglio dei legami con al Qaeda. Ad oggi, al di là del rapporto Onu di un paio di settimane fa (che ha fatto molto scalpore), l’aneddotica ci dice che non è così. Talebani ed al Qaeda hanno ancora legami, come ribadito la scorsa settimana dal più alto ufficiale americano presente nel Paese. Noi crediamo che sia così, e dunque prestiamo la massima attenzione. Occorre notare che alcuni di questi legami sono familiari o comunitari; ciò non giustifica comunque il loro mantenimento. Il rappresentante americano, l’ambasciatore Zalmay Khalilzad, che ha fatto il miracolo di portare le parti al tavolo, segue anche lui con enorme attenzione questo tema.

La preoccupazione sul punto è stata espresse anche dal segretario generale della Nato Jens Stoltenberg alla ministeriale Difesa della settimana scorsa.

Siamo venuti qui dopo l’11 settembre per evitare che il Paese fosse una piattaforma per il terrorismo, interno e internazionale. Lo scopo principale dell’accordo Usa-Talebani è proprio questo. L’obiettivo è il rientro nella società civile afgana dei talebani e il loro impegno a non consentire che il territorio diventi nuovamente una piattaforma per attività terroristica. Oltre ad al Qaeda c’è l’Isis. Le organizzazioni terroristiche presenti in Afghanistan sono all’incirca una ventina.

Dell’accordo Usa-Talebani si ricorda soprattutto il ritiro delle truppe Nato da 16mila a 12mila unità. Resta comunque condizionato agli impegni di cui sopra?

Evidentemente sì. La riduzione delle truppe è la parte più visibile del tutto, ma accompagna il processo di pace. All’avverarsi di tutte le condizioni, la pianificazione prevede che si riducano certe truppe. Oltre i numeri, però, contano le capacità. La missione a guida Nato Resolute Support resta al momento sulla “fase A leggera” con alcuni obiettivi chiari: continuare a difendersi; continuare a sostenere le forze di sicurezza afgane; e continuare ad addestrare e guidare le stesse nel loro sviluppo. Fino a quando il ritiro non sarà completo, resteremo fortemente impegnati e saremo in grado di continuare a sostenere il processo di pace. Ridurre di un certo numero le truppe non significa ridurre le capacità. Vengono ridotte le forze nei settori le cui competenze sono passate alle autorità nazionali afgane, al ministro della Difesa e dell’Interno.

Ci ha descritto finora un complesso quadro di sicurezza. Come ha impattato su tutto questo la pandemia da Coronavirus?

Ha influenzato praticamente tutto. Attualmente, oltre al processo di pace, Covid-19 è il problema prioritario per gli afgani. Sta rallentando tutta una serie di processi, costringendo le persone a casa e riducendo le possibilità di contatti tra le autorità. Ha colpito tutti, le Forze armate afgane, i talebani e popolazione. In ogni caso, per ora si può parlare di una rallentamento delle attività quotidiane, non di un vero e proprio stallo.

Passiamo all’Italia. Il Parlamento sta discutendo il nuovo pacchetto missioni per il 2020. Per Resolute Support si conferma un dispiegamento massimo di 800 unità, con un impegno in Afghanistan secondo solo agli Usa. Come è avvertita la nostra presenza?

È un argomento di cui parlo sempre con grande piacere. Le Forze armate sono percepite per quello che sono: un’eccellenza assoluta a livello mondiale. Sono apprezzate da tutti, alleati e partner, a partire dal comandante di Resolute Support, il generale Austin S. Miller.

E dalla popolazione locale?

L’Italia è considerato in Afghanistan un Paese amico da tutta la popolazione. Non perché siamo simpatici e belli, ma perché abbiamo raggiunto risultati impressionanti. Resolute Support ha diviso il Paese in quattro zone operative. All’Italia spetta la zona ovest di Herat, attualmente al comando del generale Enrico Barduani, dove si sono raggiunti risultati incredibili. L’impegno italiano ha consentito il miglioramento delle capacità delle forze afgane con una serie di azioni (compresi addestramento e mentoring su logistica, manutenzione e riparazione di veicoli armati) che hanno dato loro la sostenibilità della forza. Il 207esimo Corpo d’armata afgano, affidato in cura agli italiani, è ora in grado di esprimere una garanzia di sicurezza alla popolazione perché, vista l’azione italiana di trasferimento di competenze e capacità, è diventata una forza armata sostenibile, in grado cioè di funzionare quotidianamente nel tempo.

Ci faccia qualche esempio.

L’impegno italiano ha permesso miglioramenti dal punto di vista della riduzione di check points isolati e difficilmente difendibili, nonché da quello informatico e della logistica, tra gestione informatizzata dei magazzini, pianificazione di operazioni complesse e interforze, e realizzazione di strutture sanitarie. Sono tutte attività che, grazie al mentoring italiano, il 207esimo Corpo d’armata ha imparato e si vede assicurate per i prossimi anni. A tutto ciò si aggiunge la fiducia che la popolazione ha acquisito nella zona sotto il controllo italiano. Ha consentito all’area di Herat di poter essere considerata oggi la regione più avanzata dell’Afghanistan. È un successo di cui andare fieri. Significa che non abbiamo sacrificato invano uomini e risorse.

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