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Settimo comandamento: non uccidere il cinema. Il commento di Ciccotti

Al cinema ci andiamo con l’amico o l’amica del cuore; con l’innamorato o l’innamorata; con la famiglia. Ci si va con i compagni di classe e gli insegnanti (e, spero, anche con “i” e “le” presidi). Oppure da soli. Con l’eventualità, per “cineincidenza”, d’incontrare l’anima gemella.

Al cinema si va per divertirsi. E per imparare. Per tener vivo, attraverso dei capolavori, il nostro senso etico. Ad esempio, per scongiurare nuove guerre (Paisà, 1946, Roberto Rossellini; Dove volano le cicogne, 1958, Michail Kalatazov; Hiroshima mon amour, 1959, Alain Resnais; Apocalypse Now, Francis Ford Coppola, 1979); e per evitare di ripiombare negli orrori delle dittature e delle nuove shoà (Schindler list, 1993, Steven Spielberg; Garage Olimpo, 1999, Marco Bechis; Le vite degli altri, Florian von Donnersmarck, 2006).

Ci sediamo in sala per ridere facendo del bene (Luci della città, 1931, Charlie Chaplin); o per ridere semplicemente delle stranezze della vita (A qualcuno piace caldo, 1959, Billy Wilder; Un sacco bello, 1980, Carlo Verdone); per vivere storie d’amore (Accadde una notte, 1934, Frank Capra; Vacanze romane, 1956, Billy WiIlder); per perdonare chi ci ha fatto un torto (Aurora, 1927, Friedrich W. Murnau; Little Boy, 2015, Alejandro Gomez Monteverde); per ribadire che siamo tutti uguali, seppur “colorati” (Incvictus, 2008; Gran Torino, 2009, Clint Eastwood); per difendere la dignità della donna (Il colore viola, 1985, Steven Spielberg); per aiutare chi nell’adolescenza, in guerra e in pace, non ha punti di riferimento (L’infanzia di Ivan, 1958, Andrej Tarkovskij; I quattrocento colpi, 1959, François Truffaut; L’asso di Picche, 1963, Milos Forman); per dire agli abilmente “diversi” che la loro vita è veramente composta di-versi, di pura poesia (Qualcuno volò sul nido del cuculo, 1975, Milos Forman; Forrest Gump, 2005, Robert Zemeckis); per ricordarsi che senza lavoro non si può vivere (Ladri di biciclette, 1948, Vittorio De Sica); per ascoltare e conferire fiducia agli anziani, anche quando la loro saggezza sembra faccia acqua e appaia bizzarra (L’angelo azzurro, 1939, Josef Von Sterberg; Il giardino delle fragole, 1958, Ingmar Bergman; Una storia vera, 1999, David Lynch; Il corriere, 2028, Clint Eastwood).

Il cinema è protesta contro le mafie (Il giorno della civetta, 1968, Damiano Damiani; Gomorra, 2008, Matteo Garrone ) e contro il cancro della droga (Cristina F. Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino, 1981, Uli Edel; Amore tossico, 1983, Claudio Caligari).

Inoltre, andiamo al cinema per arricchire la personale “terza pagina culturale” situata all’interno dell’ippocampo (L’uomo con la macchina da presa, 1929, Dziga Vertov; Van Gogh, Maurice Pialat 1982, Amadeus,1984, M. Forman; Volevo nascondermi, Giorgio Diritti, 2020).

Infine il cinema, come sappiano, sin dalla sua invenzione ci parla del presente e del passato, ma intende svolgere una funzione rassicurante: ci aiuta a prefigurarci con anticipo il futuro (Voyage dans la lune, 1903, Georges Méliès; 2001 Odissea nello spazio, 1968, Stanley Kubrick). Insomma, il cinema ci ricorda che la vita, pur con molte difficoltà, è bella e meravigliosa (La vita è bella, 1997, Roberto Benigni; La vita è meravigliosa, 1946, Frank Capra).

In questi mesi le sale cinema sono rimaste chiuse per la pandemia. Molti film del cinema italiano, e delle cinematografie estere, non sono più usciti. Parte di questi hanno trovato e troveranno visibilità, sulle piattaforme digitali. Ma quanti sono, tra gli spettatori, coloro che hanno disponibilità economica ad abbonarsi e poi a trovar del tempo per vedersi il film in piattaforma? Ancora. Il consumo solitario del film e della serie-tv, se diffuso tra adolescenti e giovani (con casi seri di dipendenza) scema presso il pubblico adulto.

La visione del film – ricordiamoci la sera del 28 dicembre 1895, a Parigi, al Boulevard des Capucines, con i Fratelli Louis e Auguste Lumière -, nasce come spettacolo collettivo, per subito trasformarsi in un rito dal variegato irresistibile fascino. Con una particolare liturgia. La sala cinema ha i suoi induplicabili luoghi e azioni: foyer, sala con poltrone, porte con tende pesanti sia all’ingresso che ai lati, schermo, altoparlanti. Luce/buio; fascio di luce saettante dalla cabina attraverso delle finestrelle; macchina di proiezione chiamata ad animare, “magicamente”, sul telone, vite e oggetti tridimensionali. Con voci e rumori “veri”.

E non dimentichiamo la musica, generatrice d’un intenso piacere estetico. La nostra coscienza di realtà, già “abbassatasi” per accettare la “finzione” come “vera”, considera la “musica commento” parte del “reale” riprodotto, anche quando non proviene da una fonte fisica (radio, strumento musicale, ecc.).

Infatti, non troviamo irrealistico se nella poetica, ineguagliabile fuga finale del ragazzo Antoine verso la libertà (I quattrocento colpi, 1959, Truffaut), attraverso campi, poderi, e case deserte, entri il commento musicale di Jean Constantin. Il musicista trasforma la corsa di Antoine in un leggero volo di passero, chiamando gli archi e i legni: un oboe, un flauto, sino al pizzicato finale del violino, sul frame-stop del suo primo piano. Tutto mixato, nelle ultime inquadrature, con il timido sciabordare delle piccole onde cui è andato incontro il ragazzo. Ora, raggiunto il mare, egli schiaccia delicatamente l’acqua sotto le suole. Quasi a farsi abbracciare dal mare. Come a chiedere al mer (mare) quell’amore che la propria mère (madre) non gli ha saputo donare.

Alla riapertura delle sale, il 15 giugno, torniamo al cinema. Certo, dopo una nuotata al mare, lo shopping nei centri commerciali, prima o dopo la pizza. Gli autori, le maestranze, i distributori lavorano per non far morire la più bella invenzione artistica e spettacolare degli ultimi due secoli. Un sogno (millenario) diventato realtà, che sarebbe piaciuto vivere a Platone.

Seduti in sala vivremo la fantastica esperienza di Cecilia, quando entra nella vita dello schermo (La rosa purpurea del Cairo, 1985, Woody Allen).

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