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I cioccolatini Moretti e la nuova caccia alle streghe. Scrivono Curini e Molle

Di Luigi Curini e Andrea Molle

Come molti ricorderanno, il maccartismo fu un periodo particolare della storia degli Stati Uniti risalente ai primi anni cinquanta e durato fino ad inizio 1955, quando il senatore Joseph McCarthy fu forzato a dimettersi dalla presidenza della commissione parlamentare d’inchiesta a seguito di una mozione di censura. L’ossessione di McCarthy fu quella per il comunismo che, visto da lui come il pericolo più grande per l’America, lo portò a dare vita ad un clima di sospetto così diffuso, una vera e propria caccia alle streghe, che fu, alla lunga, deleterio per la società americana. Oggi, pur con tutti i distinguo del caso, rischiamo i ritrovarci di fronte ad una situazione non così distante. Con qualche importante differenza. Che rende la “minaccia” di questa nuova caccia alle streghe, al tempo stesso meno e più pericolosa.

La più ovvia delle differenze è l’oggetto, il target, della caccia alle streghe. Non più l’anticomunismo, ovvero “la paura rossa” come si chiamava 70 anni fa, legata ad un reale nemico esterno (l’Urss), ma l’esatto opposto. Almeno a parole, l’oggetto del biasimo è oggi il razzismo, il fascismo e tutti quei complessi di colpa più o meno latenti interni all’Occidente.

Ma il metodo tuttavia, con il suo assolutismo, è lo stesso degli anni ‘50. Oggi siamo nel pieno di una nuova Inquisizione, perpetrata da una auto-nominatasi forza di polizia morale, che non rende conto che a sé stessa e che si appaga nell’istituire processi alle intenzioni, laddove gli accusati sono colpevoli a prescindere, e senza diritto alcuno al contraddittorio. Si badi bene che questo risultato non dipende solo dal caso, eclatante e straziante, dell’omicidio di George Floyd, ma da una lenta rivoluzione culturale che negli ultimi decenni ha imposto il paradossale principio ultimo che, per tutelare la diversità, ma solo quella di maniera, il dissenso e il confronto, specie se accesso, ovvero il sale di qualunque democrazia liberale, vada abolito (l’allontanamento di capo-redattori ideologicamente scomodi da importanti giornali americani in queste settimane ne è un esempio concreto).

Ne scriveva Robert Hughes già nel 1993 nel suo splendido La cultura del piagnisteo, la saga del politicamente corretto. Una tendenza celebrata oltremanica (ma non solo), sui media che contano, tra le star (e starlette) della tv e del cinema, financo nei college (in cui oramai, prima di parlare di Dante e della Divina Commedia, occorre pre-avvertire gli studenti, per proteggerli da pensieri che potrebbero urtare loro e la loro visione manichea della realtà). Il risultato è una generazione appartenente alla classe media istruita che, più per riflesso pavloviano acquisito in anni di ricompense social per chi si mostra “moralmente virtuoso” (con bandierine e autoflagellazioni annesse), appoggia entusiasticamente ogni nuova “chiamata alle armi”, ma solo e strettamente dopo aver individuato qualche nuova nobile causa per cui lottare che si possa spendere per catturare applausi.

E così se la Royal Opera House rischia l’etichetta infamante di “suprematista bianca” perché non si è inginocchiata, come altri, a seguito dell’omicidio di George Floyd, a nessuno pare appropriato farlo, ad esempio, per la libertà di Hong Kong o per le migliaia di donne Yazidi torturate ed uccise dall’Isis.

Ma ecco una seconda differenza: il nuovo maccartismo colpisce non solo le persone in carne ed ossa (esemplare il caso della protagonista dello show Teen Mom Og, licenziata in tronco dal network Mtv per un tweet sì orribilmente razzista ma scritto 8 anni prima quando l’attrice aveva 16 anni – insomma nel pieno dell’età della “stupidera”). Si concentra anche su quelle in bronzo. E così le statue vengono abbattute dai moderni iconoclasti, per cui “partecipare” è spesso il brivido di un vandalismo che può andare su Instagram, alle volte forse con qualche ragione, come nel caso dei monumenti che inneggiano alla mancata vittoria sudista, ma sovente con estrema superficialità e grossolani errori. Ed è il caso della statua che, a Philadelphia, ritrae Matthias Baldwin, un abolizionista che si battè contro la schiavitù ben 30 anni prima della sua abolizione. Ma che per i manifestanti “antirazzisti” diventa un “colonizzatore” e un “assassino”.

E non solo: in fatto di cose inanimate, anche i film (il dibattito di questi giorni su cosa avvenuto a Via col Vento è illuminante – ma attenzione anche a quello che succederà ad Hazzard e alla sua bandiera confederata nei prossimi giorni), e persino i cartoni animati non vengono risparmiati dal tarlo tutto postmoderno, ma ancora dal sapore maccartista, di cercare un significato perverso in ogni cosa. E dunque basta con il tenero cane poliziotto di Paw Patrol, reo di promuovere la coppaganda (crasi di cop, poliziotto, e propaganda), e magari rappresentare il simbolo perfetto della riforma tanto pubblicamente promossa della polizia.

Una riforma che forse alla fin fine non interessa davvero, perché gli “sbirri buoni”, si sa, non possono esistere nella nuova realtà moralmente giusta. E sì alla censura per l’uso di fucili e pistole nei Looney Tunes, le cui gag armate non hanno mai realmente voluto promuovere il diritto alle armi. Quella semmai è la Costituzione americana.

Per finire ai cioccolatini ritirati dal mercato per via di un nome (i “Moretti”) che all’improvviso appare troppo ingombrante ad alcuni. Gli esempi oramai non mancano in questa spirale. Ma ci fermiamo qua. Fino ad ora, e per fortuna, la nuova caccia alle streghe a differenza dell’originale, non ha (ancora?) il Leviatano statale dalla sua (ma anche qua, i segnali non mancano: la Commissione per la diversità varata dal sindaco di Londra Sadiq Khan che dovrà, tra l’altro, decidere sul futuro della statua, al momento impacchettata, di Winston Churchill, non fa presagire nulla di buono all’orizzonte), rappresentando al contrario un fenomeno più dal basso, decentrato, che ha nei social la sua agorà (e la sua auto-celebrazione).

Non è neanche riconducibile alla leadership di una singola persona come negli anni 50. Il che però pone un problema niente affatto banale, se vogliamo, perché già questo semplice fatto la renderebbe più facilmente disinnescabile (in presenza di una volontà di farlo, ovviamente). Giù (simbolicamente, beninteso) il leader, fine della caccia alle streghe, esattamente come successe con il maccartismo originale.

Ma senza una leadership in grado di mediare, le novelle guardie rosse del politicamente corretto rischiano di divorare tutto ciò che gli si para d’innanzi. Mentre la coda dei politici che si affrettano ad unirsi a questa follia collettiva è sempre più lunga. A cominciare dal sindaco di Minneapolis che, prima, va a farsi umiliare dai protestanti, e poi piange davanti alla bara di Floyd, ovviamente con telecamere accese. O la sindaca di Seattle che plaude alla rivolta e alla perdita di sovranità cittadini su ben 6 blocchi della città.

Paradossalmente, ed esattamente come il maccartismo, la reazione a tutto ciò potrebbe rivelarsi controproducente per i suoi stessi fautori. Offuscando ad esempio le giuste e condivisibili ragioni delle proteste contro le pulsioni, piccole o grandi poco importa, ancora presenti di razzismo sistemico, che ritroviamo in America ma anche in molti altri paesi. Ma anche facilitare la vittoria elettorale di chi in realtà, come Donald Trump, è politicamente agli antipodi. Perché, come spesso accade, la strada per l’inferno è sempre lastricata di buone intenzioni.

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