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Debole, senza mercato, isolata. Se la Cina di Xi vede nero dopo il Covid-19

Di Laris Gaiser

I risultati dell’ultima sessione dell’Assemblea del popolo cinese dimostrano che il regime comunista ha compreso il potenziale deflagrante di quello che per primi abbiamo definito, all’inizio della crisi del Covid 19, la trappola di Chernobyl.

La colposa gestione della crisi da parte delle autorità siniche sta scatenando una reazione a catena capace di destabilizzare il futuro del Partito Comunista il quale, molto razionalmente, ha preso atto degli avvertimenti dell’intelligence nazionale sul probabile aumento della pressione internazionale nei confronti della Cina ma assai meno avvedutamente ne ha tratto le conclusioni sul da farsi.

Evitare di fornire stime sulla crescita economica, parlare per la prima volta di nuova Guerra Fredda e approvare la legge sulla sicurezza di Hong Kong sono momenti che denotano un approccio nuovo, difensivo. Il Partito si prepara a gestire l’ondata di crisi politica eliminando dal dibattito pubblico gli obiettivi di crescita che non riuscirà a raggiungere, definendo stabilmente il nemico esterno verso cui convogliare le colpe dei propri fallimenti e riassicurando se stesso sulle capacità di controllo delle tensioni.

Così facendo il regime fornisce ulteriori frecce all’arco dei Paesi antagonisti e pone in dubbio la stessa leadership del presidente Xi Jinping, portabandiera dell’impostazione imperiale.

La Cina, in verità, si sta schiantando contro la mai confutata logica della strategia secondo cui un Paese non può perseguire contemporaneamente una crescita rapida sul piano diplomatico, militare ed economico in quanto, per il cosiddetto “paradosso della strategia”, il Paese invece d’accumulare potere ne avrà sempre meno a causa dell’aumento costante dell’opposizione internazionale.

La crisi del coronavirus è solo l’acceleratore del fenomeno di resistenza che era assolutamente inevitabile dopo che Xi aveva aumentato la proiezione internazionale cinese con il progetto della nuova Via della Seta, accresciuto l’aggressività economica esterna delle sue aziende e rilanciato lo sviluppo del settore militare. L’incompetenza strategica non lascia scampo anche se camuffata da ascesa pacifica economica.

Pur disponendo del più grande mercato interno del mondo, il Partito comunista cinese non ha lo ha mai aperto per paura di creare una classe media indipendente portatrice di pretese politiche inconciliabili col regime. Lo sviluppo economico si basa forzatamente sulle esportazioni e le delocalizzazioni, a Pechino non sanno come altrimenti gestire gli effetti dell’economia di mercato e la conseguente rivoluzione sociale.

Senza il mercato globale la Cina si troverebbe in guai seri, assai di più di quanto il mercato globale possa esserlo senza la Cina. Nei prossimi mesi Pechino faticherà non poco a ribilanciare con lo stimolo della domanda o dell’offerta avendo una crescita basata in buona parte sugli investimenti infrastrutturali pubblici e su un settore produttivo inefficiente e corrotto di proprietà prettamente statale.

Il settore pubblico ammonta a circa 30.000 miliardi di dollari, assorbe l’80% dei finanziamenti bancari ma rappresenta solo il 25% del prodotto interno lordo. Un sistema altamente vulnerabile la cui sterilità potrebbe dimostrarsi dirompente.

È in tale contesto di contenimento e controllo delle future conseguenze che si deve inserire la comprensione della proposta di un G11 di Trump. Un’alleanza anti Cina che distacchi la Russia dall’abbraccio mortale con Pechino e al tempo stesso un cordone sanitario ricalcante gli schemi proposti da Barack Obama con la Partnership Trans Pacifica (TPP).

Consiglio non richiesto per il Partito comunista cinese: la continuità strategica statunitense dovrebbe trattenerlo dal commettere un ulteriore errore, ovvero quello di immischiarsi nella campagna elettorale americana a sfavore di Trump. Indipendentemente da chi sieda alla Casa Bianca, nei prossimi anni l’atteggiamento nei confronti del regime di Pechino non cambierà.

La radicata presunzione della superiorità dello Tianxia si sta sfaldando. La Cina, desiderosa di soppiantare gli Stati Uniti, fino a ieri stava compiendo esattamente i medesimi errori della Germania di Bismarck, progettata per superare l’allora potenza globale britannica. A questo punto perfino gli idealisti potrebbero dire che se a Pechino soffrono d’incapacità strategica è dovere della comunità internazionale evitare che il tutto sfoci in un ulteriore disastro globale.

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