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Due anni di Conte. Le metamorfosi di un leader secondo Ocone

Quando esattamente due anni fa, il primo giugno 2018, un allora ai più sconosciuto Giuseppe Conte entrava come presidente del Consiglio a Palazzo Chigi, in molti ci chiedemmo come avrebbe fatto un uomo nuovo alla politica a tener testa alle tensioni che dividevano il Paese e la stessa maggioranza che sosteneva il suo governo. Ma in verità, i due soci di quella maggioranza, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, lo avevano messo là proprio come camera di compensazione “notarile” delle loro opposte personalità e ideologie. Una sorta di sintesi hegeliana di tesi e antitesi che però si realizzava depotenziandosi e non arricchendosi delle inconciliabili diversità di cui erano portatrici la Lega e il Movimento.

Un “burattino”, tradussero subito le forze di opposizioni, e persino qualche non certo affidabile leader straniero. Ci vorrebbe forse un grande letterato, o uno psicologo, per descrivere ciò che dovette sopportare allora, e per più di un anno, questa sorta di “cavaliere dimezzato”, ogni giorno costretto a subire in silenzio da alleati e nemici, e a castrare quell’egocentrismo e quella vanità che gli erano propri ma che solo poi sarebbero venuti fuori. Intanto, come uno stratega, mentre i suoi dioscuri erano impegnati nelle piazze e nelle passerelle dell’italica “campagna elettorale permanente”, egli tesseva le sue trame all’interno del Palazzo, diventando l’unica sponda per quel potere di apparato, per la vecchia élite, che continuava ad essere, seppur anchilosata, la “colonna vertebrale” del Paese. E i suoi rapporti li tesseva anche all’estero, che i suoi vice (fra l’altro allergici all’inglese) snobbavano, e dalle cui sorti, lui sicuramente scaltro e intelligente, capì subito che l’Italia dipendeva.

Quando le elezioni europee confermarono sostanzialmente, nell’aprile 2019, il vecchio establishment al potere in Europa, egli creò pure una finestra di salvezza per i due soci del governo “populista”: un appoggio molto condizionato alla Ursula sopraggiungente, in modo da far pesare sul tavolo dei vincitori (novello Cavour ma solo in questo) voti sicuramente determinanti. Il Movimento rispose, ma non così la Lega (che pure un po’ titubò).

Fu quella forse la morte politica di Salvini, il quale volle poi tirare la corda e spingere per nuove elezioni non tenendo nel debito conto tre elementi fondamentali: che l’Italia continua ad essere una democrazia parlamentare e che quind le maggioranze si fanno lì, nel Parlamento; che il Pd ha un apparato di potere da foraggiare e non può permettersi per troppo tempo di stare all’opposizione; che la più parte dei deputati della legislatura erano dei “miracolati” e che non una ma mille messe avrebbero sopportato per di conservare un posto a Parigi, pardon nell’emiciclo.

Sempre più sveglio degli altri, equilibrista come lo sanno essere con la loro dialettica solo i più consumati avvocati, nei giorni successivi al Papeete Conte capì che doveva consumare il parricidio e sconfessare quel Salvini che per più di un anno aveva difeso e assecondato. Con un giro di valzer, che sputtanò un po’ tutti e non solo lui (ma la politica è un po’ “puttana” e chi non vuole averci a che fare se ne tenga lontano!), si ritrovò di nuovo presidente del Consiglio con un’altra maggioranza. Un po’ come nella “ammuina” borbonica chi stava a poppa si ritrovò a prua e viceversa, ma lui restò al timone. Un fatto mai successo nella storia dell’Italia non solo repubblicana, e che già solo per questo gli assicura un posto nella storia.

Baciato anche dalla fortuna, che machiavellicamente è parte importante del gioco, ad un governo, il suo secondo,  che vivacchiava nell’inconcludenza ha dato poi di nuovo vigore la più tragica delle evenienze: la pandemia. Il fu “burattino” è diventato allora l’ “uomo solo al comando”, pieno del suo ruolo e incurante di ogni critica al suo incipiente (per quanto nei modi affettato) caudillismo.

Circondatosi di “esperti” che non gli fanno ombra ma che caso mai lo salvaguardano dalle responsabilità, il premier ha forse però esagerato nelle promesse e nelle “minacce” e in una comunicazione a dir poco aggressiva e poco istituzionale. Se la crisi degenererà, è probabile che sarà lui il “capro espiatorio”, nella più classica tradizione nazionale. Non finirà nella polvere come Napoleone, ma anche per lui potrà dirsi che fu “due volte nella gloria” ma non ci fu la terza.

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