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Perché i generali Mattis e Allen sfiduciano Trump? Lo spiega Saini Fasanotti (Brookings)

Di Federica Saini Fasanotti

Il 3 giugno 2020 passerà alla storia negli Stati Uniti d’America che, ora come non mai, si trovano davanti ad un bivio esistenziale. Ieri, l’ex segretario della Difesa, nonché ex mitico generale a quattro stelle dei Marines, James Mattis, ha rotto il silenzio.

Molti ricorderanno la valanga di critiche che l’alto ufficiale si era attirato dopo aver pubblicato, una manciata di mesi dopo il pensionamento abbastanza rocambolesco, il suo libro “Call Sign Chaos”, basato sull’importanza della leadership, ma privo di alcun riferimento ai suoi due anni turbolenti al Pentagono.

La relazione con il presidente Trump aveva seguito il classico decorso sperimentato con altri rinomati generali che avevano deciso di partecipare a questa drammatica amministrazione, forse nella speranza di salvare le sorti del paese – da H.R. McMaster a John Kelly – sfilacciandosi neanche troppo lentamente. Dopo le dimissioni pubbliche di Mattis, a causa di pesanti divergenze sulla gestione degli alleati, Trump, con il suo solito savoir faire, gli aveva abbaiato contro con qualche tweet, rimangiandosi tutte le belle parole dei mesi precedenti.

Mattis non aveva risposto, se non durante uno speech davanti ad un pubblico sceltissimo, escoriando spietatamente, ma sempre con il sorriso, il suo accusatore.  Il tema del contegno e del silenzio, per l’ex generale, era legato al giuramento davanti alla Costituzione che ogni soldato americano fa e che presuppone un netto distacco tra l’ambito politico e quello militare.

In sostanza, chiunque abbia prestato giuramento deve tacere e limitarsi ad obbedire. I critici nei suoi confronti gli hanno imputato proprio questo, e cioè che i militari sono al servizio del popolo americano e non del loro presidente, nonostante egli sia il comandante supremo delle Forze Armate. La differenza è sottile, ma straordinariamente profonda e, inevitabilmente, oggetto di diverse interpretazioni.

Come quella, ad esempio, di John R. Allen (nella foto), altro Marine a quattro stelle, nonché presidente della Brookings Institution, il think tank più famoso al mondo, nato dallo spirito del segretario di Stato americano George Marshall nel secondo dopoguerra, e da sempre faro per chi si occupa di geopolitica.

Allen, a differenza della maggior parte dei suoi colleghi, ha sin dai tempi delle primarie democratiche del 2016 manifestato apertamente contro Trump, attirandosi, a sua volta, critiche pesanti proprio dal suo mondo. Nonostante la decennale amicizia, lo stesso Mattis si è dichiarato distante dalla presa di posizione di Allen, causando qualche scintilla.

Il gesto di ieri, alla luce di questi retroscena, appare quindi ancora più clamoroso ed indicativo di una situazione assolutamente inedita e dagli sviluppi imprevedibili.

Mattis, ammettendo la propria rabbia, ha deciso di uscire su una rivista a lui cara, The Atlantic, con un pezzo risoluto contro un presidente immaturo, il cui scopo è solo quello di fomentare le divisioni fra i cittadini americani, non guardando al bene della nazione, ma al proprio piccolo rendiconto. E, proprio lo stesso giorno, sulla scia di Mattis è apparso anche Allen, su un’altra grande testata – Foreign Policy – con uno stile decisamente più appassionato, ma proponendo involontariamente lo stesso identico target. I due non si sono sentiti, non si sono coordinati né sulla data di pubblicazione dei loro articoli, né sulle tematiche all’ordine del giorno.

Eppure, è sorprendente quanto il messaggio sia lo stesso, e vale la pena qui riportare due stralci, il primo di Mattis che ha scritto, riferendosi a Trump: “possiamo unirci senza di lui, attingendo ai punti di forza insiti nella nostra società civile. Questo non sarà facile, come hanno dimostrato gli ultimi giorni, ma lo dobbiamo ai nostri concittadini; alle generazioni passate che si sono sacrificate per difendere la nostra promessa; e ai nostri figli”.

In contemporanea Allen concludeva con queste parole di speranza un articolo il cui esordio era profondamente pessimista: “segnatelo sul calendario: questo potrebbe essere l’inizio del cambiamento della democrazia americana non verso un regime illiberale, ma verso l’illuminazione. Ma essa dovrà essere generata dal basso verso l’alto. Perché alla Casa Bianca non c’è nessuno”.

Nessun adulto quantomeno. Niente di più pericoloso dopo quasi 110.000 morti di Covid-19 e 40 milioni di disoccupati su 308 milioni di cittadini americani.


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