Due giorni fa il Global Times, una delle voci più accese nel panorama dei media del Partito comunista cinese, paragonava le proteste negli Stati Uniti per la morte di George Floyd a quelle di Hong Kong. I politici statunitensi, che si erano riferiti alle proteste di Hong Kong come a “un bellissimo spettacolo da vedere”, scriveva il giornale cinese, “naturalmente non si aspettavano che un simile spettacolo si spandesse così velocemente da potere essere visto dalle loro finestre”. E ancora: le proteste negli Stati Uniti “sono come uno specchio che riflette la vergogna e la disgrazia dei politici statunitensi, così come la disfunzione politica profondamente radicata e i valori caotici negli Stati Uniti”.
“Il razzismo verso le minoranze è una malattia cronica della società americana”, diceva invece, riportato dalla tv di Stato cinese Cgtn, uno dei portavoce del governo cinese, Zhao Lijian, sottolineando che “le vite delle persone nere sono vite come quelle degli altri” e che i diritti degli afroamericani “devono essere garantiti”.
Come ha raccontato Politico, infatti, Pechino ha mobilitato diplomatici, media di regime e social network per alimentare le accuse contro Washington. Ma le dichiarazioni antirazziste (e antiamericane) sono soltanto una parte della campagna cinese sulla morte di George Floyd. C’è anche una certa dose di disinformazione — da parte cinese come russa. L’ha rilevato un’analisi di diversi post su Twitter effettuata da Politico Europe, che ha analizzato diversi post su Twitter. Ecco quanto emerso: “Dal 30 maggio, funzionari governativi, organi di stampa sostenuti dallo Stato e altri utenti di Twitter collegati a Pechino o Mosca hanno cavalcato sempre più hashtag legati a George Floyd”. L’obiettivo: “Spingere messaggi di divisione e criticare il modo in cui Washington gestisce la crisi”.
Un esempio su tutti? Questo tweet di Hua Chunying, portavoce del ministro degli Esteri di Pechino, che riprendendo una dichiarazione su Hong Kong di Morgan Ortagus, portavoce del dipartimento di Stato di Washington (in pratica la sua omologa), dice “I can’t breathe”, la frase più volte ripetute da Floyd prima di morire e diventata uno dei principali slogan dei manifestanti che da diversi giorni occupano le strade di tutti gli Stati Uniti.
“I can’t breathe.” pic.twitter.com/UXHgXMT0lk
— Hua Chunying 华春莹 (@SpokespersonCHN) May 30, 2020
Si tratta di una campagna che ha due obiettivi. Lato interno: convincere i cittadini di Russia e Cina dei mali della democrazia. Lato esterno: generare sfiducia verso gli Stati Uniti (in particolare in Europa). È un’operazione che cinsi inserisce, nota Politico Europe, in un quadro già complesso. Da una parte gli sforzi cinesi sul Web — anche a suon di disinformazione — in vista delle imminenti elezioni presidenziali statunitensi, dall’altra la battaglia tra il presidente uscente Donald Trump e varie piattaforme social, Twitter in particolare. “In questo momento la Russia sta facendo quello che ha sempre fatto”, ha dichiarato a Politico Europe Bret Schafer, esperto della Alliance for Securing Democracy del German Marshall Fund. “Ma è la prima volta”, ha aggiunto, “che vediamo la Cina impegnarsi a fondo in una battaglia comunicativa che non tocca direttamente interessi cinesi”.
E a giudicare dalle ultime dichiarazioni (e non dichiarazioni) dell’Alto rappresentate Ue Josep Borrell sembra che gli sforzi cinesi abbiano raggiunto qualche obiettivo. “Siamo scioccati e sconvolti dalla morte di George Floyd”, ha spiegato il capo della diplomazia europea. Che però nei giorni scorsi ha preferito non intervenire nella questione di Hong Kong. Da parte sua né una dichiarazione forte a difesa dei manifestanti pro democrazia repressi dalla polizia cinese né una minaccia a Pechino. Perché, come da linea europea dettata dalla Germania, gli investimenti sono la chiave per favorire il dialogo e l’apertura alla Cina.
A questo punto, però, visto che si è scelto di non colpire i rapporti economici con Pechino dopo il via libera alla nuova legge sulla sicurezza nazionale di Hong Kong, servirebbe aver la forza di dialogare.
Ma la diplomazia cinese sta perseguendo anche un altro obiettivo: riallacciare i rapporti con l’Africa. Basta dare un’occhiata al tweet antirazzista di Hua Chunying, portavoce del ministro degli Esteri di Pechino, che riprende una dichiarazione di Moussa Faki Mahamat, politico ciadano attualmente a capo dell’Unione africana, la potente organizzazione che ha sede ad Addis Abeba, in Etiopia. Una sede inaugurata nel 2018 e realizzata grazie al contributo del governo cinese, come riportato dalla BBC. La stessa Etiopia di cui è stato ministro degli Esteri Tedros Adhanom Ghebreyesus, oggi direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità, finita nel mirino degli Stati Uniti per la sua condotta all’inizio dell’epidemia di coronavirus giudicata troppo filocinese.
All lives matter. We stand firmly with our African friends. We strongly oppose all forms of racial discrimination and inflammatory expressions of racism and hatred. https://t.co/bRXvafrKZH
— Hua Chunying 华春莹 (@SpokespersonCHN) June 1, 2020
Così, anche sfruttando la morte di George Floyd, la Cina — che pur non brilla in questo campo visti i molti episodi di razzismo verso non soltanto gli afroamericani ma anche i non-cinesi in generale — sta cercando di recuperare il rapporto con molti Paesi africani. Un legame indebolito dal coronavirus: infatti, come raccontato nelle ultime scorse da Formiche.net, molti Stati del Continente nero avevano convocato gli ambasciatori cinesi chiedendo spiegazioni sui video di migranti discriminati in Cina. Pechino, notavamo allora, non può permettersi uno scandalo diplomatico né di perdere gli “alleati” africani, fondamentali perché rappresentano laboratori per l’innovazione cinese, basi per il consensus di Pechino nelle sedi del multilateralismo come le Nazioni Unite e infine aree strategiche per la Via della seta.
Ed ecco che alimentare le polemiche sulle eventuali responsabilità dell’amministrazione statunitense — per non dire dell’approccio statunitense in generale alla società — per la morte di George Floyd si sta rivelando, dopo la campagna di aiuti e soft power piovuta sull’Europa e sull’Africa all’inizio della pandemia di coronavirus, una potente arma nella comunicazione di Pechino, decisa ad allontanare dagli Stati Uniti i loro alleati storici e a rafforzare la sua presenza nel Continente nero.