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Più del golden power può l’intelligence economica. Gaiser spiega perché

Di Laris Gaiser

Dopo lo scandalo dei cinque di Cambridge per restituire lustro alla propria immagine i servizi segreti di Sua Maestà britannica puntarono sul lancio cinematografico di James Bond. Grazie alle spie doppiogiochiste inglesi le poco pretenziose novelle dell’agente 007 incontrarono un successo planetario e i film degli anni Sessanta e Settanta permisero al Mi6 e all’Mi5 di riconquistare l’opinione pubblica.

Mutatis mutandis il medesimo effetto riabilitativo a favore dell’intelligence italiana, spesso additata quale fabbrica di oscuri complotti e destabilizzazioni, è stato conseguito negli anni passati dal roadshow eseguito dal Dis in base alle previsioni di apertura al settore civile definite nella Legge di riforma del 2007. Trattare d’intelligence in Italia è divenuto attraente nell’ultimo decennio.

Il quadro normativo di riferimento poi ha aperto la via verso nuovi futuribili traguardi. Qualcosa però si è inceppato anzitempo. Il potenziale della riforma non è stato sfruttato appieno, soprattutto nel settore dell’intelligence economica sdoganata da Savona e Jean come materia di studio.

Quale indegno discepolo dei due maestri ho provato, fin dal 2011, a proseguire sulla loro strada proponendo per primo – e credo fino ad oggi ultimo – una riforma sistemica del settore basata sull’esperienza iniziale, tecnicamente funzionale, della Francia degli anni Novanta. All’epoca della presidenza Stucchi del Copasir il dibattito è stato portato fin dentro le mura del Parlamento ma proprio in quella sede è risultato chiaro che tanto i protagonisti istituzionali, quanto – e questa fu la vera sorpresa – quelli economici e di categoria non ne comprendevano il valore aggiunto.

In un ambiente internazionale caratterizzato dalla sempre maggiore concorrenzialità dei sistemi Paese è impossibile pensare di sopravvivere senza intelligence economica. Essa non è fine a se stessa ma crea benefici tanto allo Stato quanto alle sue imprese e moltiplica l’importanza geopolitica della nazione.

I detrattori dell’intelligence economica sottolineano come in Italia già esistano istituzioni preposte a tale scopo e che sarebbe sufficiente coordinarle. In verità tale assunto è parte del problema anziché della soluzione. È semplice constatazione empirica che laddove tutti fanno tutto, nessuno decide.

La crisi del Covid-19 ha nuovamente dimostrato l’urgenza di dotarsi presto di una capacità geoeconomica del tutto assente nelle visioni dell’attuale classe dirigente. Nei periodi di crisi si gestisce la destabilizzazione con i mezzi a disposizione. Non si fanno riforme, ma ora che la crisi sta per passare e l’Italia si ritroverà ancora più alla mercé della benevolenza altrui, l’unico modo per ritrovare in futuro maggiore spazio di manovra è ripensare il nostro approccio.

In Francia l’assetto dell’intelligence economica entrerà in crisi nei prossimi anni quando constateranno il venir meno – causa delle passate riforme del settore militare – della vecchia categoria degli ufficiali riservisti, spina dorsale della classe manageriale d’Oltralpe.

In Italia non abbiamo né le Grands Ecoles che formino un pensiero uniformato capace d’intendere all’unisono l’interesse nazionale né tantomeno dirigenti con una capacità d’azione guerriera.

L’Italia ha la peculiarità d’avere una struttura produttiva formata prettamente da piccoli e medi imprenditori. Per formare una struttura d’intelligence economica sarà in futuro assolutamente necessario prevedere un Cisr capace di dare indirizzo politico alle scelte geoeconomiche istituzionalizzando la collaborazione tra pubblico e privato, rivedere il ruolo delle Camere di commercio rendendole utili al fine superiore anziché solo riformarle sterilmente e fornire al Dis – eccessivamente escluso dalla grande strategia – una capacità maggiormente propositiva.

Ma perché l’intero sistema di coordinamento funzioni il Dis potrebbe gettare anche in questo caso le fondamenta. Un nuovo roadshow tra gli imprenditori e le associazioni di categoria ovvero nelle viscere di un mondo fortemente prevenuto nei confronti dello Stato da sempre visto come apportatore di problemi anziché di soluzioni, creerebbe un ambiente più ricettivo e consapevole. Per vincere le guerre si devono conquistare i cuori e le menti dei soldati, non solo quelli degli intellettuali accademici.

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