Skip to main content

L’Iraq alla prova della stabilità. Il dialogo con Washington e gli interessi italiani

Cercasi stabilità per l’Iraq. È iniziato oggi lo “strategic dialogue” tra i governi di Washington e Baghdad. Proposto dagli Usa ad aprile, serve a ricucire i rapporti dopo le difficoltà che seguirono l’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani. La situazione politica nel Paese resta delicata, con un governo insediatosi da poco più di un mese e le forze filo-iraniane che continuano a premere per la rottura con Washington. A tutto questo si aggiunge la perdurante minaccia dell’Isis.

IL PIANO DI POMPEO

Il segretario di Stato Mike Pompeo ha affidato la gestione del dialogo al sottosegretario per gli Affari politici David Hale, affiancato da funzionari del Pentagono, del dipartimento dei Trasporti, dell’Energia e di altre agenzia. Si punta, ha spiegato ieri in conferenza stampa lo stesso Pompeo, a rispolverare l’accordo strategico siglato nel 2008. “Con nuove minacce all’orizzonte – ha detto il segretario di Stato – compresa la pandemia globale da coronavirus, il crollo dei prezzi del petrolio e un ampio deficit di bilancio, è imperativo per gli Usa e l’Iraq incontrarsi come partner strategici per definire un modo per procedere con mutuo beneficio”.

IL NODO DELLA PRESENZA MILITARE

Nonostante il tono ampio del “dialogo strategico” proposto dagli Usa, il nodo centrale riguarda la presenza militare americana in Iraq. Stimata in circa 5.200 unità, è divenuta sovraesposta dopo l’uccisione di Qassem Soleimani. A stretto giro dal raid sul leader iraniano, infatti, il Parlamento iracheno ha approvato una risoluzione non vincolante (con un forte ascendente di Teheran) con cui ha chiesto al governo di far uscire i soldati americani dal territorio nazionale. Richiesta a cui il governo non ha risposto, nonostante la pressione di partiti e movimenti filo-iraniani. Il dibattito, nonostante il congelamento da Covid-19, è rimasto invariato, così come gli episodi di attacchi diretti alla Green zone (di due giorni fa il lancio di razzi contro l’aeroporto di Baghdad).

BOTTA E RISPOSTA

“Continueremo a mantenere le forze fino a quando il governo iracheno sarà disposto ad avere forze statunitensi e della Coalizione presenti nel Paese sino alla sconfitta permanente di Daesh, non ancora compiuta”, ha chiarito venerdì scorso James F. Jeffrey, l’inviato speciale degli Usa nella regione. Lunedì è arrivata la risposta Moqtada al-Sadr, noto leader sciita già dietro le proteste contro gli Usa in diverse occasioni negli ultimi anni, che è tornato a chiedere agli americani di porre fine al loro “comportamento aggressivo e di alto livello nei confronti del mondo”. Nonostante i toni combattivi dei movimenti filo-iraniani, l’impressione è che per il governo guidato da Mustafa al-Kadhimi la partnership con gli americani sia tuttavia di vitale. Si è insediato da poco più di un mese, nonostante le dimissioni dell’esecutivo di Adel Abdul Mahdi risalgano allo scorso novembre, sulla scia delle violente proteste che attraversavano il Paese.

GLI INTERESSI (E GLI IMPEGNI) ITALIANI

A guardare con particolare interesse le dinamiche irachene c’è l’Italia. Secondo l’Ice, tra gennaio e settembre dello scorso anno, la Penisola ha importato dall’Iraq petrolio per 3,8 miliardi di euro, in crescita rispetto ai 2,6 dello stesso periodo del 2018. Per l’Unione petrolifera, nel 2019 è arrivato dall’Iraq il 20% dell’import nazionale di greggio. Significa che il Paese è il primo fornitore dell’Italia di petrolio, davanti a Russia e Libia, anche a fronte del brusco calo delle forniture iraniane. Non è un caso che nel decreto missioni al vaglio del Parlamento, il governo abbia previsto un incremento nel dispiegamento massimo per il contributo alla Coalizione internazionale anti-Isis, da 900 a 1.100 unità, con l’aggiunta di una batteria missilistica Samp-T che sarà schierata in Kuwait per proteggere gli assetti nazionali “a seguito dell’evoluzione dello scenario geo-politico nell’area d’operazioni”.

L’ASSE CON WASHINGTON

Il rafforzamento italiano segue dunque il trend securitario dell’area, accertato in peggioramento anche dalla riunione della scorsa settimana del gruppo ristretto della Coalizione globale anti Daesh, co-presieduta dal ministro Luigi Di Maio e dal segretario di Stato statunitense Mike Pompeo. Il vertice ha testimoniato tra l’altro l’allineamento tra Roma e Washington a favore della stabilità dell’area. A fine gennaio, nelle settimane turbolente del post-uccisione di Soleimani, il presidente iracheno Barham Salih era giunto a Roma (all’indomani dell’incontro a Davos con Donald Trump) per parlare con Giuseppe Conte, che a sua volta aveva ricevuto nella stessa giornata il segretario Pompeo. Il tutto accadeva a pochi giorni dalla visita in Iraq del ministro Lorenzo Guerini, durante la quale il titolare di palazzo Baracchini aveva incontrato anche l’ambasciatore Usa nel Paese Matthew Tueller. Intrecci e incontri che dimostrano le numerose intersezioni sul dossier iracheno tra Italia e Stati Uniti, inevitabile per la presenza di importanti contingenti da parte di entrambi i Paesi.

TRA PENTAGONO E PALAZZO BARACCHINI

Il tutto si mostrava con chiarezza a fine gennaio, durante la visita al Pentagono di Guerini. Nella conferenza stampa con Mark Esper, emergeva un confronto “molto positivo”. In quel periodo, il rischio di crisi tra Iran e Usa aveva spaventato molti Paesi coinvolti nella Coalizione anti-Isis, che avevano dunque predisposto parziali riduzioni dei contingenti. Non l’Italia, che per prima aveva invece confermato la propria presenza ottenendo per questo da subito il riconoscimento di Washington. L’intesa si estende al contesto Nato. La linea, certificata nelle ultime riunioni dell’Alleanza Atlantica, è un progressivo trasferimento di competenze dalla Coalizione anti-Isis alla parallela Nato Training Mission, per cui per il 2020 l’Italia prevede 46 unità. L’obiettivo resta l’abbassamento del profilo della presenza degli Stati Uniti.


×

Iscriviti alla newsletter