Uno: luce verde per partecipare alla missione Irini per la Libia. Due: coinvolgimento nella task force Tabuka voluta dalla Francia per il Sahel. Tre: uno sforzo per difendere gli asset dell’Eni (e non solo) nelle acque del Golfo di Guinea. Sono le principali novità delle missioni militari italiane per l’anno in corso, a cui si aggiunge la pressoché totale conferma degli impegni in Libano, Afghanistan e Iraq (dove c’è addirittura un incremento) per la gestione del ministro della Difesa targata Lorenzo Guerini. Grande assente: la missione nello Stretto di Hormuz. È quanto emerge dalle due relazioni approvate dal Consiglio dei ministri, relative agli impegni in corso e a quelli di nuovo avvio, comunicate lo scorso giovedì alla presidenza del Senato dal ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà e assegnate alle commissioni Esteri e Difesa per l’avvio del necessario dibattito.
LA MISSIONE IN LIBIA
Come preannunciato il 13 gennaio alla Camera dal ministro Luigi Di Maio, il contributo italiano alla missione dell’Ue per garantire l’embargo sulla Libia sarà di circa 500 militari, un’unità navale e tre mezzi aerei. La missione, denominata Irini, è operativa da diverse settimane al comando dell’ammiraglio Fabio Agostini con quartier generale all’interno dell’aeroporto Baracca di Centocelle, a Roma. Ha iniziato le operazioni il 4 maggio con la fregata francese Jean Bart e un aereo da pattugliamento marittimo del Lussemburgo, a cui poi si sono aggiunti un ricognitore polacco, uno greco e la fregata greca Spetsai. Per l’Italia, lo sforzo nell’ambito di Irini si aggiunge alla missione bilaterale di supporto e assistenza (Miasit) in cui rientra l’ospedale da campo a Misurata e per cui si confermano per il 2020 i numeri dello scorso anno: un dispiegamento massimo di 400 militari (effettivi circa 240), 142 mezzi terrestri e le unità navali derivanti da Mare Sicuro.
LO SFORZO NEL SAHEL
L’esigenza di un maggiore impegno in Libia era stata notata dal ministro Guerini sin dalla presentazione delle linee programmatiche del suo dicastero. In quell’occasione era emersa anche l’intenzione di potenziare la presenza nel Sahel, poi ulteriormente ribadita a metà gennaio di fronte le Commissioni Difesa di Camera e Senato dopo l’uccisione del leader iraniano Qassem Soleimani. “Intendiamo incrementare la nostra presenza in Sahel, dove si assiste a una recrudescenza del terrorismo di matrice confessionale” con “effetti interconnessi fortemente allo scenario libico”, aveva detto Guerini. Intenzione che va inserita in un più ampio progetto di rinnovata intesa con la Francia.
LA RICHIESTA FRANCESE
Da diversi mesi arrivano pressanti richieste da Parigi per avere supporto alla missione Barkhane, operativa in un’area grande quanto l’intera Europa con 4.500 militari francesi, a fronte di una crescente instabilità tra terrorismo jihadista e traffici illeciti. A fine gennaio, in una telefonata con l’omologa transalpina Florence Parly, Guerini notava “convergenza di vedute” in merito al Sahel e all’esigenza di rafforzare il quadro di sicurezza. Lo scorso venerdì, la stessa convergenza è emersa in una nuova telefonata tra i due, con l’endorsement italiano alla Coalizione internazionale per il Sahel, il format ideato da Parigi per stabilizzare la regione. A fine febbraio, andava in scena a Napoli il vertice Italia-Francia. Si confermava allora l’ipotesi di una sponda tra Roma e Parigi, con la Penisola a rispondere alle richieste francesi sul Sahel, e i transalpini ad agevolare le strategie italiane sulla Libia, offrendo un contesto utile all’emersione di quel “ruolo europeo” da tutti invocato per le turbolenze nordafricane.
… E L’IMPEGNO ITALIANO
A fine marzo, dal Consiglio dell’Ue è dunque arrivato il consenso necessario al lancio di una missione per garantire l’embargo in Libia, mentre proseguiva la valutazione dell’impegno nel Sahel. Già dal 2019 la ministra Parly propose, durante una visita in Mali, la creazione della task force Tabuka, una forza multinazionale inter-forze con obiettivi di addestramento e supporto al contrasto del terrorismo tra Mali, Niger e Burkina Faso. Inserita nella suddetta Coalizione per il Sahel, potrà contare anche su un massimo di 200 militari (e 20 mezzi terrestri) italiani fino al prossimo dicembre, con una consistenza media prevista di 87 unità. Nella regione opera già la Missione bilaterale di supporto nella Repubblica del Niger, per cui nel 2019 si era autorizzato un dispiegamento massimo di 290 militari, 160 mezzi terrestri e cinque mezzi aerei. Numeri confermati per il 2020.
LA MISSIONE NEL GOLFO DI GUINEA…
La vera novità è rappresentata dalla missione nel Golfo di Guinea, nelle acque dell’Oceano indiano tra Nigeria, Ghana e Costa d’Avorio. Nel testo approvato dal Consiglio dei ministri di parla di un “dispositivo aeronavale nazionale per attività di presenza, sorveglianza e sicurezza”. Gli obiettivi principali sono il contrasto e la prevenzione alla pirateria, in linea con l’interesse nazionale di proteggere asset strategici, tra cui si citano prima di tutto quelli estrattivi dell’Eni. Con due mezzi aerei e altrettante unità navali, opereranno nelle acque internazionali al massimo 400 unità (consistenza media in teatro di 65).
… E QUELLA A HORMUZ
E se sorprende l’inserimento dell’impegno nel Golfo di Guinea, fa lo stesso l’assenza di riferimenti a una missione nello stretto di Hormuz. A fine gennaio, il Consiglio dell’Unione europea aveva trovato consenso politico sulla missione Emasoh (European-led maritime surveillance mission in the Strait of Hormuz), una coalizione di volenterosi nata su iniziativa di Parigi a cui l’Italia si diceva favorevole. Da circa un anno le acque dello stretto di Hormuz sono d’altra parte tornate a surriscaldarsi per l’assertività iraniana, ulteriormente aumentata dopo la morte di Qassem Soleimani. Persino il Giappone ha previsto in tempi recenti il dispiegamento di unità militari a protezione dei propri interessi, mentre gli Stati Uniti invocano da tempo un coinvolgimento maggiore degli alleati nel controllo della regione (raccogliendo il supporto del Regno Unito per l’operazione Sentinel). Quelle acque “rappresentano un interesse strategico per la nostra economia”, spiegava Guerini alle commissioni parlamentari a gennaio, illustrando l’intenzione di aderire al progetto francese. Nel documento approvato dal Consiglio dei ministri manca ogni riferimento a Hormuz. Lo sforzo italiano nell’area sembra al momento congelato.
LA CONFERMA PER IRAQ…
Per gli altri impegni dello scorso anno c’è una sostanziale conferma. La stabilità dell’Iraq resta tra i principali interessi strategici. Il Paese è il primo fornitore di petrolio per l’Italia (dati 2019, Unione petrolifera), con una copertura del 20% dell’import nazionale di greggio. Nel 2019, si era autorizzato un dispiegamento massimo di 900 unità per la missione Prima Parthica, contributo nazionale alla Coalizione internazionale anti-Isis. Per il 2020, i numeri del governo salgono a 1.100 unità, con l’aggiunta di una batteria missilistica Samp-T che sarà schierata in Kuwait per proteggere gli assetti nazionali “a seguito dell’evoluzione dello scenario geo-politico nell’area d’operazioni”.
… E LA LINEA NATO
In ogni caso, la linea con partner e alleati (certificata nelle ultime riunioni dell’Alleanza Atlantica) è un progressivo trasferimento di competenze dalla Coalizione anti-Isis alla parallela Nato Training Mission, per cui per il 2020 l’Italia prevede 46 unità. L’obiettivo è abbassare il profilo della presenza degli Stati Uniti, divenuta sovraesposta dopo l’uccisione di Qassem Soleimani e la conseguente risoluzione del Parlamento iracheno di invito al governo per fa uscire gli americani dal territorio. D’altra parte, Baghdad ha chiarito di ritenere importante il sostegno dei partner, anche considerando che le esigenze di sicurezza e anti-terrorismo restano invariate (e forse peggiorate) causa Covid-19. Lo stesso è stato certificato dalla riunione ristretta della Coalizione anti-Isis co-presieduta da Italia e Stati Uniti.
E L’AFGHANISTAN?
Discorso simile per l’Afghanistan. L’anno scorso il Parlamento aveva autorizzato un massimo di 800 unità per la missione Resolute Support della Nato, per lo più dislocate a Herat. Lo stesso numero è previsto per il 2020, sebbene non si escluda una rimodulazione “in senso riduttivo” nel caso di un miglioramento delle condizioni di sicurezza. L’accordo raggiunto a fine febbraio tra Stati Uniti e talebani prevede una riduzione della presenza straniera fino a 12mila unità entro l’estate. Si tratta tuttavia di un ritiro “condizionato” al rispetto dell’accordo da parte dei talebani, ovvero la cessazione delle ostilità verso le forze afgane e il buon esito dei negoziati tra le forze del Paese.
I segnali in tal senso non sono incoraggianti. Gli ultimi tre mesi sono stati tra i più difficili per la stabilità del Paese, tra scontri violenti, attentati e una recrudescenza dell’azione dell’Isis. La partita non è dunque chiusa, e tantomeno l’impegno internazionale al processo di pace. A gestire il dossier c’è tra gli altri l’ambasciatore Stefano Pontecorvo, nominato poche settimane fa alto rappresentate civile della Nato nel Paese.