La crisi che vive la magistratura italiana, simile per allarmante profondità a quella che vive la politica, viene sempre raccontata in modo contorto da opinionisti specializzati che allargano il tiro dell’analisi restituendo al lettore sperduto un retrogusto di numeri gonfi di letargie procedurali, di palleggi tra competenze, di errori giudiziari, di toner mancanti e personale ausiliario che non ausilia. In realtà basterebbe molto meno per farla capire alla gente. Basterebbe De André che nel lontano 1971, in un album storico “Non al denaro non all’amore né al cielo”, riportava in musica poesie tratte dall’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. De André era un poeta e la traduzione fu una straordinaria riscrittura di Masters, che andrebbe portata a scuola per far “sentire” la poesia moderna. Tra i brani più belli c’è “Il giudice”, noto a chi ama il grande artista genovese, anche per la costruzione di una implicazione tra la non felice fisicità del magistrato in questione e i comportamenti carogneschi mantenuti in tribunale. A un certo punto il brano faceva:
“Fu nelle notti insonni vegliate al lume del rancore
Che preparai gli esami, diventai procuratore
Per imboccare la strada che dalle panche di una cattedrale
Porta alla sacrestia quindi alla cattedra di un tribunale
Giudice finalmente, arbitro in terra del bene e del male”.
Ecco: per raccontare la crisi del potere giudiziario in Italia, basterebbe un brano del Faber. A questo mi è venuto da pensare alla notizia dell’espulsione di Palamara dall’Anm, a seguito delle note vicende che hanno attraversato la cronaca italiana degli ultimi mesi, e che lo hanno travolto ribaltandone il ruolo nello schema abitualmente adottato nelle aule dei tribunali: da accusatore ad accusato. E dire che l’Associazione nazionale magistrati nel 2008 lo elesse suo presidente a soli 39 anni, salutandolo come un enfant prodige della toga, che già recava nel suo palmares di Pm a Reggio Calabria e poi a Roma, successi professionali e mediatici, come l’inchiesta sui comitati d’affari nel mondo del calcio, nota come “Calciopoli” e quella su un’ambiguo personaggio, tal Steve Pieczenick, inviato nel 1978 in Italia dal governo americano per seguire il caso Moro e la trattativa con le Br.
Al mondo dei telespettatori di Sky – ma poi ripreso dall’informazione mainstream – si rivelò grazie al “teorema del tonno palamara”nel 2008. Avvenne grazie all’istrionismo urticante del presidente emerito Cossiga, suo sparring partner in un talk show televisivo, che non troppo felicemente si compiacque di giocare con calembour e fisiognomica per affermare l’equazione “Palamara ha la faccia da tonno”, pescando nell’immaginario dei consumatori con l’effetto di far crescere la curva degli acquisti del “tonno Palamara pinna gialla” che esiste davvero. Peraltro, in un empito di acribia informativa, il presidente emerito disse pure che l’Anm era “un’associazione di stampo mafioso” lasciando basita la conduttrice ma anche creando l’evento mediatico che consegnò il magistrato Palamara alla notorietà nazionale. Dove restò ben in vista ricoprendo poi lo scranno di membro del Csm, ruolo da cui derivano i suoi problemi odierni.
Ieri i colleghi dell’Anm, la “sua” associazione che lo vide giovanissimo tra i protagonisti della vita pubblica del Paese, lo hanno espulso per “gravi violazioni al codice etico”. Un atto dovuto? Un atto cautelativo? Un atto precoce? Anche Palamara gode, come ogni altro cittadino, della tutela costituzionale che tende a considerare non colpevole l’imputato fino al giudicato. Avrà modo di difendersi e spiegare le sue ragioni nei tribunali. Certo, avrà anche modo di meditare su un aforisma di Borges che diceva: “Per aver paura dei magistrati non bisogna essere necessariamente colpevoli”.