Oggi il Parlamento ha votato in via definitiva, al Senato, dopo il voto della Camera di pochi giorni fa, il dl elezioni voluto dal governo: fissa l’election day (Regionali, comunali e referendum costituzionale) al 20 settembre. Per la prima volta nella storia, la data di un’elezione “non” viene concordata, tra maggioranza e opposizione, ma decisa in via del tutto autonoma dal governo, come pure il fatto che si tratta di tre elezioni del tutto dissimili tra di loro.
Il tutto è successo, al Senato, con polemiche infuocate tra la maggioranza e l’opposizione (pessima, secondo entrambi, la gestione dell’aula da parte del presidente Casellati…) e al prezzo di un vero e proprio obbrobrio istituzionale. Infatti, “confondere” e mischiare elezioni tipicamente e squisitamente politiche come le regionali e le comunali con un referendum di rango e tipo costituzionale come quello sul taglio dei parlamentari è una cosa che non si era mai fatta e neppure mai vista, in 70 anni di storia repubblicana, per non dire della follia di creare differenti platee elettorali (sei regioni e mille comuni da un lato, dove l’affluenza sarà più alta, e il resto delle regioni e comuni dove sarà di certo più bassa) ma pure questo oggi accade in tempi eccezionali e soprattutto di diktat pentastellati. Sono stati loro, infatti, a volere e pretendere di “mischiare” le pere con le mele, e per bieche ragioni di calcolo: pensano che così il referendum passerà di sicuro (il sì sul no, dunque) e, anche, che i sì al referendum “trascineranno” voti alle liste locali dei M5S, storicamente deboli nelle elezioni amministrative. Ma proprio in base alla congenita debolezza nelle elezioni locali dei pentastellati, le prossime regionali si tradurranno in una “classicissima”: centrodestra versus centrosinistra.
I GOVERNATORI HANNO FANNO FUOCO E FIAMME PER VOTARE PRIMA, MA ALLA FINE L’ELECTION DAY SARÀ IL 20 SETTEMBRE
I governatori in carica, che mirano a esser tutti riconfermati, hanno fatto, in queste settimane e mesi, fuoco e fiamme. Prima volevano votare a luglio, quando l’Italia era ancora in lockdown, poi hanno gridato al vulnus istituzionale perché il governo ha fissato l’election day il 20 settembre. Alla fine, però, hanno dovuto accettare il fatto compiuto. Il 20 settembre si voterà in sei regioni a statuto ordinario, più una autonoma, la Valle d”Aosta, in mille e rotti comuni, e per il referendum costituzionale sul taglio dei parlamentari.
LA DATA “BARICENTRICA” TRA LE REGIONI E LE OPPOSIZIONI
Una data definita “baricentrica” dalla testa d’uovo dem in materia, il deputato e costituzionalista Stefano Ceccanti. “Baricentrica” perché, appunto, mentre i governatori volevano votare il prima possibile (il 6 o il 13 settembre) e il centrodestra il più tardi possibile, cioè il 27 settembre, la maggioranza di governo – con il contributo di Forza Italia – ha deciso per il 20 settembre, includendo nell’election day anche il referendum costituzionale. Consultazione che il Comitato del NO, formato da 64 senatori, chiede però che venga, quantomeno, abbinata ai ballottaggi del 4 ottobre, pronta – con i senatori Cangini, Pagano e Nannicini – a ricorrere fino alla Consulta e al Quirinale, se necessario, perché ritiene l’abbinamento “ingiusto e incostituzionale”.
IL CENTRODESTRA NON TROVA L’ACCORDO SUI CANDIDATI DA MESI, MA ORA IL TEMA DELL’AUTONOMIA DEL VENETO POSTO DALLA LEGA RISCHIA DI FAR SALTARE GLI EQUILIBRI OVUNQUE…
Mentre il braccio di ferro ancora prosegue, però, ecco venir fuori un elemento politico rilevante: in sei Regioni su sette mancano ancora i nomi ufficiali degli sfidanti, quasi tutti di centrodestra. E nonostante i vertici di Lega, FdI e FI annuncino, da giorni, di essere vicini a un’intesa tra loro, il quadro resta ancora incerto. L’ultima grana scoppiata ieri riguarda il Veneto di Zaia: il governatore e Salvini hanno posto, come conditio sine qua non, per mantenere l’alleanza di centrodestra unita ed evitare di far correre la Lega da sola che FdI e FI accettino che la “bandiera” dell’autonomia del Veneto (Zaia ci ha vinto sopra anche un referendum locale nel 2017 col 90% di sì) sia parte integrante del programma e dell’alleanza. Meloni non vuole neppure sentirne parlare e anche Tajani nicchia. Rischia, di fatto, di saltare tutto, cioè sia l’alleanza del centrodestra in Veneto che nelle altre regioni dove, come vedremo, le tensioni sono molto forti.
Non che il centrosinistra stia messo meglio. L’input del Nazareno è di cercare di stringere alleanze con l’M5s ovunque, ma da un lato i “cacicchi” locali dem si sono ribellati al diktat e, dall’altro, i referenti locali dei 5Stelle di appoggiare certi governatori uscenti dem non ne vogliono sapere. Ma ecco la mappa del “chi si candida dove”.
SOLO IN VENETO IL “DOGE” ZAIA NON TEME I SUOI RIVALI
Veneto. Solo nelle “tre Venezie” l’esito della sfida appare scontato. Il leghista Luca Zaia, governatore da 10 anni, non a caso detto “il doge”, gode di un consenso molto forte che, durante la pandemia, è se possibile aumentato: la modifica della legge regionale gli consente di correre per un terzo mandato. Fino a ieri appoggiato dal centrodestra, dopo le polemiche scoppiate oggi, forse dalla sola Lega. In ogni caso, da solo o in compagnia, Zaia tornerà in sella.
Il Pd, come in molti altri contesti, è spaccato in mille rivoli, ma alla fine ha deciso di appoggiare la candidatura di Arturo Lorenzoni, docente universitario e vicesindaco di Padova, con un profilo civico e ambientalista che, però non ha trovato l’accordo e il consenso dei pentastellati. Il M5S, dunque, a meno di colpi di scena, correrà da solo.
ANCHE TOTI, IN LIGURIA, NON TEME RIVALI. PD E M5S DIVISI
Liguria. Giovanni Toti, nonostante la scissione da Forza Italia, che lo ha reso inviso a Berlusconi, e la fondazione di un piccolo movimento politico, “Cambiamo!”, sarà sostenuto da tutto il centrodestra. Tutti con Toti, dunque, tranne alcuni forzisti guidati dall’ex ministro Scajola.
Pd e M5S, per avere più chances di tornare a governare (la Liguria è, storicamente, terra di sinistra, nonché casa e origine del Movimento di Beppe Grillo), hanno cercato di trovare un accordo sulla candidatura di Ferruccio Sansa, giornalista de Il Fatto quotidiano e figlio di Adriano (sindaco di Genova dal 1993 al 1997), ma è saltato tutto, ma potrebbe rispuntare, in extremis, un accordo, imposto “da Roma”. Quell’accordo che il vicesegretario dem, il ligure Andrea Orlando, e il reggente del M5s, Vito Crimi, erano convinti aver già portato a casa già due settimane fa. Ma i dem locali hanno detto di no a Sansa e vorrebbero un nome meno divisivo. I 5Stelle non riescono a tirare fuori un nome diverso da quello di Sansa, amico personale di Grillo. A complicare le cose ci si è messa pure Iv: il no a Sansa, ritenuto un “giustizialista”, dei renziani è stato categorico.
Sul tavolo sono spuntate anche altre due candidature, quella di Ariel Dello Strologo, avvocato e presidente della comunità ebraica di Genova, sponsorizzato dai dem, e quella di Aristide Fausto Massardo, già preside della facoltà di ingegneria di Genova, gradito ai pentastellati: In ogni caso, Toti va verso una semi-certa e sicura riconferma.
IL “FORTINO ROSSO” DELLA TOSCANA RESISTERÀ ALLA DESTRA?
Toscana. Anche nell’ultimo vero fortino rosso insieme alla “resistente” Emilia-Romagna – dove Stefano Bonaccini coltiva, nei confronti del Pd nazionale, la stessa “voglia matta” di Zaia nella Lega (fare le scarpe a Zingaretti e conquistare la segreteria dem in un prossimo futuro) – la sfida sembra perdere appeal per un centrodestra mai in partita. Il centrosinistra, in tutti i sondaggi, è dato avanti. Il governatore uscente, Enrico Rossi (Mdp), non si ricandida e ha fatto largo al dem Eugenio Giani, presidente del suo consiglio regionale e meglio noto come “mister preferenze”.
Il suo competitor ufficiale, da mesi, è la leghista Susanna Ceccardi, oggi europarlamentare, ma la sua candidatura non è mai diventata “ufficiale” perché sia FI che FdI nutrono giusti dubbi sull’efficacia di una candidatura che reputano perdente (rischia di fare la fine di Bergonzoni).
Pd e Italia viva hanno, invece, un accordo blindato su Giani. Renzi che spera, con la sua lista, di “fare il botto”, cioè di prendere almeno il 10% dei voti e dimostrare che Iv non è un partito “da 3%”. I dem toscani stanno tentando un accordo in extremis con il M5S che appare impossibile.
IL CAOS MARCHE E UNA PARTITA ANCORA TUTTA APERTA
Marche. Qui il Pd ha governato negli ultimi cinque anni, ma lo ha fatto assai male e il governatore uscente, Luca Ceriscioli, non ha fatto nulla per aiutare il suo partito. Il sindaco di Pesaro, Matteo Ricci, avversario di Ceriscioli, e il segretario dem, Nicola Zingaretti, hanno premuto sui pentastellati per dare vita un’alleanza “strategica”, ma i 5Stelle, nel frattempo, hanno già consultato la base e hanno scelto Gian Mario Mercorelli come proprio candidato.
Alla fine, il centrosinistra ha trovato un accordo sul sindaco di Senigallia, Maurizio Mangialardi, sostenuto anche da Art. 1 e renziani. Il centrodestra, anche qui, è in alto mare: Francesco Acquaroli, deputato di Fratelli d’Italia e che vuol tentare la corsa a governatore per la seconda volta, non è gradito alla Lega e neppure a Forza Italia, e tutto è fermo. Il busillis si risolverà solo quando e se andranno a dama i altri tasselli, ma nelle Marche il centrodestra può farcela.
IN CAMPANIA LO SCONTRO HA UN VALORE NAZIONALE: LA LEGA (E LA CARFAGNA) VOGLION FAR SALTARE L’ACCORDO SU CALDORO
Campania. Qui la partita ha valore nazionale. In campo per il centrosinistra c’è il governatore uscente, Vincenzo De Luca. Fino a prima della pandemia era dato fuori dai giochi per il bis, salvo poi ribaltare il quadro con un profilo molto duro tenuto nella gestione del coronavirus, durante cui ha acquisito consensi e popolarità, locali e nazionali, molto alti ma, dopo la vittoria del Napoli alla Supercoppa e le scene di giubilo dei tifosi per strada, persino l’Oms lo ha sgridato.
Senza dire che un pezzo di Pd gli tifa apertamente contro mentre un pezzo di ex Dc (De Mita, Mastella, Pomicino) e di ex centrodestra lo appoggia con liste civiche prendi-voti.
Per il centrodestra ci sarebbe in campo Stefano Caldoro (origine socialista e una vita passata in Forza Italia) che già contese, a De Luca, la carica di governatore, cinque anni fa e che, nei sondaggi, pur silente da mesi, è pure ben quotato. Ma il leader della Lega, Matteo Salvini, non ha mai voluto davvero sostenerlo: giudica il suo profilo non adatto e, soprattutto, vuole imporre un suo uomo per sfondare nelle regioni del Sud, dove la Lega è debole, con una candidatura “forte” e autorevole. E, dentro FI, pure la vicepresidente della Camera, Mara Carfagna, non vuole Caldoro. Solo il partito della Meloni non ha riserve, sul suo nome, ma perché vuole preservare i suoi candidati in Marche e Puglia.
Il M5S, fallita l’ipotesi di un “grande accordo” con il Pd, che era quasi fatto sul ministro dell’Ambiente, Sergio Costa, sceglierà il proprio candidato con una votazione online che si terrà su Rousseau il 10 e 12 giugno prossimi.
EMILIANO “SPACCA” PD E IV, IL CENTRODESTRA HA I SUOI GUAI
Puglia. In terra di Capitanata, spicca la ricandidatura del governatore uscente, Michele Emiliano, appoggiato da tutto il centrosinistra, ma non da Italia viva che, insieme ad Azione civile di Carlo Calenda e a +Europa della Bonino ha annunciato da mesi che presenterà un candidato autonomo, anche se ancora non è chiaro chi sarà il nome prescelto.
Anche qui il centrodestra litiga di brutto: il nome di Raffaele Fitto (ex delfino di FI, poi messosi in proprio, ora confluito in Fratelli d”Italia) è tornato in bilico perché, sempre la Lega, vorrebbe sostituirlo con Nuccio Altieri. Il centrodestra, da giorni, convoca summit nazionali tra i tre leader (Salvini, Meloni e Tajani) ma non riesce a trovare la quadra: la Meloni non vuole cedere su Fitto e Acquaroli e FI non vuole cedere su Caldoro. Per ora, non se ne esce e così tutti i pronostici giocano a favore del bis di Emiliano.
Infine, si vota pure in Valle d’Aosta, causa lo scioglimento del Consiglio regionale, mesi fa, per infiltrazioni mafiose, ma il quadro delle candidature è ancora tutto da delineare.