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Ricerca, spazio e innovazione. La ricetta per gli Stati generali secondo Darnis (Iai)

“Nel breve termine, finanziare la ricerca vuol dire strutturare i precari e generare nuove assunzioni, con un impatto economico, sociale e familiare diretto; nel medio termine, si genera un effetto a cascata su tutto l’indotto con tecnologie, brevetti e produzioni che possono porre l’Italia come leader in tanti campi”. È il consiglio per gli Stati generali dell’economia in corso a Roma che arriva da Jean Pierre Darnis, professore associato presso l’Università della Costa Azzurra e consigliere scientifico dell’Istituto affari internazionali (Iai), dove guida il programma “Tech-Rel”, dedicato a tecnologie e relazioni internazionali. Formiche.net lo ha raggiunto per capire come l’innovazione può aiutare la ripartenza.

Professore, gli Stati generali sono in corsa a Roma per trovare il miglior impiego possibile delle risorse pubbliche per far crescere il Paese. Da dove partire secondo lei?

Dalla situazione di fondo. Sul tema dell’innovazione, credo che l’Italia sia una “bella addormentata”, poiché ha un grande potenziale di ricerca sotto-utlizzato. La mancanza di fondi è strutturale. Se si prendono in considerazione organismi importanti, dal Cnr alle maggiori università, presentano tutti problemi di budget, e nonostante ciò mantengono dei livelli eccellenti. Significa che c’è un’enorme potenzialità, accompagnata da una grande opportunità di investimento.

Cosa fare dunque?

Aggiungere un 20% dei finanziamenti a strutture e risorse umane sotto-finanziate ma eccellenti, potrebbe generare effetti importanti sulla ricerca tecnologica, in campo informatico, farmaceutico, sanitario; tutti settori che vantano in Italia centri di ricerca all’avanguardia. Tra Roma e Napoli potrebbe quasi nascere un polo centro-meridionale per la ricerca sanitaria. L’informatica ha grandi competenze in Calabria, la biomedica in Abruzzo. Ci sono università grosse in Puglia e Sicilia, per non parlare di tutto il centro-nord. Ciò rappresenta un volàno eccezionale, su cui pesa tuttavia un sotto-finanziamento strutturale che non si trova negli altri Paesi europei.

Come si inserisce il discorso nella ripartenza da Covid-19?

La pandemia da Covid-19 offre l’opportunità di destinare più fondi alla ricerca in campo medico e sanitario. L’emergenza ha mostrato tante eccellenze della Penisola, su cui si potrebbe investire per generare un effetto a cascata con lo sviluppo di nuove tecnologie e la registrazione di innovativi brevetti. Grazie alla struttura di collegamenti tra ricerca e mondo industriale, dalle Pmi alle grandi aziende, c’è una possibilità incredibile di ricadute sul comparto produttivo.

In che modo?

Il piano sulla digitalizzazione dell’industria dei governi precedenti, Industria 4.0, è evidentemente un’idea virtuosa, da tenere sicuramente in considerazione. A mio avviso, ora serve però un investimento diretto sulla ricerca, certo da accompagnare alle agevolazioni alle aziende per la trasformazione tecnologica. Combinando i due elementi, si potrebbero avere risultati importati.

Cosa impedisce secondo lei di procedere in questa direzione?

Il problema è che l’università non vota. Non rappresenta una lobby politica.

Cosa dire delle grandi aziende che fanno innovazione?

In Italia già esiste un ecosistema di grandi aziende che macinano tecnologie, come Enel, Eni, Sparkle e Leonardo, solo per citarne alcune. Vanno certamente ulteriormente aiutate, ma in un disegno più ampio e complessivo sull’innovazione.

E lo Spazio?

Per lo Spazio fare un discorso a parte. L’Italia ha fatto dei grossi progressi in questo campo negli ultimi dieci anni, soprattutto a livello politico, visto che le capacità ci sono sempre state. Ha fatto progressi sulla realizzazione di interessi specifici e sul ruolo crescente in Europa. Il settore può essere ancora più qualificante per l’Italia considerando il numero crescente di applicazioni possibili tra uso dei dati, intelligenza artificiale e nuove tecnologie. È inoltre un settore molto collegato alla struttura di ricerca italiana, alle università e agli enti impegnati nel campo. Si inserisce dunque alla perfezione nella grande opportunità di finanziare la ricerca.

Come verrebbe visto da Bruxelles un piano come questo sulla ricerca?

La Commissione europea sarebbe ben felice di accogliere un piano di investimento sulla ricerca biomediale e su nuove tecnologie. L’agenda di Lisbona del 2001 resta ancora un’occasione mancata; quasi vent’anni fa (lungimirante per allora), chiedeva di procedere proprio su questi temi. In uno scenario di crisi come quello attuale, vede politicamente meno problemi rispetto al passato. L’Ue ritiene i temi della ricerca e dell’innovazione centrali. Se si presentano a Bruxelles programmi per quota 100 e reddito di cittadinanza, difficilmente vengono compresi. Se si parla di trasformazione digitale, bio-tecnologie e ricerca, ti rispondono che sono proprio i temi per loro prioritari. In un momento di crisi comune, presentarsi in questo modo rafforzerebbe l’identità dell’Italia come grandissimo Paese di ricerca e accademia.

Ma se l’obiettivo è rispondere alla crisi da Covid-19, si possono avere risultati di breve o medio termine in questo modo?

Nel breve termine, finanziare la ricerca, partendo ad esempio dal campo bio-medicale, vuol dire prima di tutto strutturare i precari e generare nuove assunzioni, con un impatto economico, sociale e familiare diretto. Nel medio termine, si genera un effetto a cascata su tutto l’indotto (a partire dalle Pmi) con tecnologie, brevetti e produzioni che possono porre l’Italia come leader nel settore.

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