GORI LANCIA IL SASSO: “AL PD SERVE UNA NUOVA LEADERSHIP”
“Vedo molti limiti nella conduzione dell’attuale partito – è stato il sasso lanciato nello stagno dal sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, nel corso di un evento pubblico e rivolto al segretario del Pd, Nicola Zingaretti – Se vogliamo incidere serve un altro Pd, più concreto, più volto a promuovere le riforme per il Paese, e quindi serve una nuova leadership”.
La nuova leadership auspicata dal primo cittadino di Bergamo potrebbe arrivare dagli amministratori locali, “ma non sarò io, che però darò una mano” precisa l’ex renziano. Gori avrebbe, dunque, lanciato l’offensiva degli ex renziani con l’idea sottintesa di sostituire Zingaretti, come vedremo meglio dopo, con il presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini, il governatore che ha battuto Salvini.
DIETRO GORI CI SONO GLI EX RENZIANI? NON PARE, PER ORA
Gori, cioè, non si sta auto-candidando alla guida del Pd, ma vuole lanciare “un altro”, Bonaccini, che, per lui, ha più “lana da tessere”. La prima domanda, però, è se lo fa con l’appoggio malcelato degli e renziani che si raccolgono sotto le bandiere della corrente “Base riformista” (Br, in sigla, sigla – ahi loro – poco felice), l’area degli ex renziani guidati dal ministro Lorenzo Guerini e dall’ex luogotenente di Renzi, Luca Lotti. I quali sono sempre più insofferenti, specie dentro i gruppi parlamentari, di cui rappresentano la magna pars, rispetto all’abbraccio “mortale” che il Pd ha imbastito con Conte e con i 5 Stelle, cioè la linea che Zingaretti (e Bettini) ha imposto al Pd.
“Ni”, è la risposta. Infatti, con una dichiarazione che sa di “birignao” da Politburo, il portavoce dell’area di Br, Andrea Romano, si affretta subito a fare il “pompiere” e a smussare ogni possibilità velleità di colpo di stato interno: “Oggi la vera sfida per il Pd – verga in una nota Romano – è quella di imprimere velocità e concretezza all’azione di governo per la ripartenza economica e sociale, con le proprie idee e le proprie competenze e anche con il ruolo fondamentale dei nostri amministratori locali. Siamo un grande partito popolare e plurale, aperto e contendibile, che poco più di un anno fa ha scelto la propria leadership con primarie aperte e molto partecipate. Zingaretti ha ricevuto un mandato pieno, che sta interpretando nel segno del pluralismo delle idee e dell’unitarietà di tutte le sensibilità culturali presenti nel Pd. Una unitarietà per cui Base Riformista si è sempre battuta. Per questo dobbiamo evitare tensioni interne che non verrebbero capite da un Paese che ci chiede realismo, concretezza e spirito di servizio”. Una lunga nota, insomma, per separare i propri destini da Gori, in buona sostanza, e per ribadire la “lealtà” di Br a Zinga.
La tempistica scelta da Gori, in effetti, ha lasciato perplesso anche chi, proprio nei gruppi parlamentari, nutre più di qualche dubbio sull’efficacia della linea del segretario: “Non si può alzare un polverone di questo genere con il Paese allo stremo. Così ci facciamo male tutti” il leit-motiv.
DAL NAZARENO RISPONDONO, DURI, RICCI E FRANCESCHINI
Dal Nazareno si fa finta di niente e, ovviamente, men che meno replica il segretario, ieri impegnato a “seguire”, “da bravo papà” gli esami di maturità della figlia. Ma, come sempre succede nella migliore tradizione post-comunista, scende in campo il più lontano, per storia personale e politica, dal segretario, l’ex renziano Matteo Ricci a difendere “la linea”. Il sindaco di Pesaro e presidente nazionale di Ali (Autonomie locali italiane) scrive infatti su Twitter: “Il Pd ha una leadership solida e autorevole e Zingaretti sta dando grande spazio agli amministratori. Dobbiamo essere una squadra unita in questo momento complicatissimo. I sindaci saranno sempre più in prima linea a fianco di Nicola per rafforzare il campo riformista”. Insomma, sindaco replica a sindaco, e non se ne parli più.
Certo è che l’intoppo, il problema, e non di poco conto, a voler “scalare” il Pd attuale è che, “un” segretario in carica (primarie vinte nel 2019, e in modo largo, dopo il disastro delle Politiche e le dimissioni di Renzi, contro Giachetti e Martina), il Pd lo ha eccome e si chiama Nicola Zingaretti. La bacchettata più dura, nel ricordarlo, arriva da Dario Franceschini che, tra durezza e sarcasmo, risponde così: “Ho letto questa interessante proposta di Gori che dice che al Pd serve un leader ‘che sia un amministratore’. Magari un presidente di Regione? Magari di una grande Regione? Magari che non venga nominato ma vinca le primarie con il 70%? Informo volentieri Gori che il segretario con queste caratteristiche l’abbiamo già e che il mandato di Zingaretti scadrà tra tre anni. Quindi porti pazienza e non apra inutili tensioni in un momento come questo di unità nel partito”. Franceschini, silente da giorni, e in “grande freddo” con il premier Conte su molti dossier, risponde così, cioè acido. Il ministro alla Cultura, e capodelegazione dem, va detto, non è – e non sarà – della partita “successione” a Zingaretti: ha già fatto, e per due volte, il “vice-disastro”, cioè il vicesegretario, come lo chiamava, con grande affetto (sic), Matteo Renzi, e punta, piuttosto, a fare il capo del governo, ove mai Conte dovesse capitolare, o il capo dello Stato, ove mai arrivasse il suo turno, dopo Mattarella.
MA LA PARTITA DENTRO IL PD È DAVVERO CHIUSA? NO, AFFATTO
Ma la partita è davvero chiusa, dentro il Pd? Insomma, stanno davvero così le cose? Zingaretti è segretario, e “non si discute”, come recita la levata di scudi. Non proprio. Come sempre, quando si parla di Pd, “grande è il disordine sotto il cielo, quindi la situazione è eccellente” – diceva il “Grande Timoniere” della Cina comunista, Mao-Tse-Dong.
Di certo, Gori spara sul quartier generale, mettendo nel mirino l’attuale segretario, Zingaretti, e la conduzione di un partito che ha scelto, in modo abbastanza ideologico, che l’unico scenario politico attuabile e praticabile è quello dell’alleanza “organica” con i 5 Stelle: oggi al governo con Conte, domani alle Regionali, dopodomani alle Politiche.
In realtà, notano molti osservatori esperti di interiora dem, Gori vuole iniziare a “tirare la volata” al vero big dem che, per ora, se ne sta acquattato, ma è pronto alla zampata. E chi? Ma al governatore dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, che ha gennaio ha (ri)-vinto la partita della vita, quella contro la Lega e il centrodestra, nella sua regione.
BONACCINI NON È “CANDIDATO A NULLA”, MA È IN CAMPO
Bonaccini, formalmente, “non” si candida a nulla (“Sto bene dove sto, faccio il governatore”), anche se ha fatto capolino una sua ipotetica candidatura a premier del centrosinistra, in modo speculare a un altrettanto ipotetica candidatura di Luca Zaia nella Lega e nel centrodestra.
Parlano, però, da mesi, sia i fatti che i gesti. Bonaccini ha scritto ben due libri – un instant-book sulla gestione della pandemia (Il virus si deve battere, Piemme) e un libro, appena uscito, dal titolo evocativo, La destra si può battere (sempre edito da Piemme, casa editrice cattolicissima) – e intende promuoverli con una campagna a tappeto non solo “local”, cioè nella sua Regione, ma ‘glocal’, in tutt’Italia, nelle redivive Feste dell’Unità e in giro per la Penisola.
Del resto, – o almeno così si dice – il “Bonaccia” la rincorsa per scalare il Pd la sta prendendo da mesi, cioè da ben prima che scoppiasse il Covid-19. Indignato per come il suo ex sodale di partito, dai tempi della Fgci e poi nel Pds-Ds, Zingaretti, “non” lo abbia aiutato e supportato nella sua folle – e riuscita – impresa di “stoppare’ la marea montante della Lega e di un Salvini che, solo cinque mesi fa, appariva inarrestabile, dicono che, a Zingaretti, l’abbia “giurata”. Inoltre, la popolarità e, soprattutto, la capacità comprovata di gestire, e arginare, il Covid-19 nella sua regione, ma pure l’essersi messo alla testa, grazie al ruolo di presidente della Conferenza Stato-Regioni, dei governatori di tutt’Italia – leghisti e forzisti compresi – nel contrapporsi al governo “centrale”, poco amato nelle regioni del Nord come del Sud, gli hanno fatto guadagnare consensi, credibilità, spessore e autorevolezza. Infine, pure l’azzeccata campagna mediatica e comunicativa, sia durante le Regionali che dopo, ne hanno fatto un personaggio che ha acquistato fascino e simpatie: il pizzetto, gli occhiali a goccia, il fisico scolpito, la parlata, sono tutte cose che – ricordate Renzi? – in Italia aiutano. A tal punto che fa sempre più spesso capolino nei talk-show.
MA ZINGARETTI (E FRANCESCHINI) HANNO IN MANO IL PARTITO
Insomma, Bonaccini è in campo: le capacità, e la voglia, non gli mancano, solo che, ad oggi, gli mancano “le truppe”. Assemblea nazionale, il massimo organo statutario del Pd, la Direzione, il suo “parlamentino” decisionale e, ovvio, la Segreteria, di stretta emanazione del Segretario, che ha appena “battezzato” 40 (dicasi, quaranta…) dipartimenti, accontentando tutte le correnti (Martina, Ascani, Guerini-Lotti, solo i Giovani Turchi sono rimasti fuori da tutto…), sono tutti retti da un asse ferreo, anzi meglio una Triplice, quella composta da Zingaretti-Orlando-Franceschini. Spazio per altri pretendenti al trono, per ora, non ce n’è.
Ma altri candidati alla segreteria dem, in giro, ce ne sono? Eccome. Non è un mistero per nessuno che l’attuale vicesegretario dem, Andrea Orlando, a quello miri, a succedere a Zingaretti, quando questi toglierà l’incomodo.
IL PD È UN PARTITO “DEMOCRATICO’, DUNQUE VA “SCALATO”
Insomma, in teoria, con l’aiuto degli scontenti interni al Pd della gestione Zingaretti, “l’assalto al cielo” lo vorrebbero dare in tanti, ma resta quel piccolo, ma decisivo, intoppo.
“Ah, se il Partito democratico non fosse così ‘democratico’! Avremmo già iniziato le pratiche per un nuovo segretario!” – dice un maggiorente dem antipatizzante di Zingaretti. Il guaio è che, appunto, il Pd “è’” un partito “democratico”, peraltro l’unico rimasto in Italia. I suoi leader-segretari li sceglie dal basso verso l’alto e non dall’alto verso il basso. La trafila è sempre la stessa, codificata dalla sua nascita, anno di grazia il 2009: primarie – elezione dei delegati all’Assemblea nazionale – elezione della Direzione e, contestualmente, del Segretario, il vincitore delle primarie. Da questo meccanismo, voluto da Walter Veltroni e ideato dalle due teste d’uovo veltroniane dell’epoca, il professor Stefano Ceccanti e il politologo Salvatore Vassallo, non si scappa: il Pd è un partito “scalabile”, sì, ma con le primarie. A meno che il segretario in carica (Zinga è stato eletto da appena un anno e, in teoria, ne ha davanti ben altri tre…) non si dimetta. In quel caso si ricorre al voto in Assemblea. Ma, per dimettersi, o perdi le elezioni politiche (come Renzi), o elezioni regionali importanti (come Veltroni) o fai cadere un governo o ne vieni travolto (come Bersani). Sennò il Pd, si terrà “Zinga”. E “Bonaccia” dovrà aspettare.