Donald Trump chiede alla magistratura un ordine d’urgenza che blocchi l’uscita del libro del suo ex consigliere alla Sicurezza nazionale John Bolton: la Casa Bianca vuole un’udienza domani, venerdì 19 giugno, considerato che la pubblicazione è prevista il 23 giugno.
Nel libro, intitolato “The Room Where It Happened. A White House Memoir”, Bolton, diplomatico umorale ed eccentrico, già rappresentante degli Usa all’Onu quand’era presidente George W. Bush, descrive l’ostruzione alla giustizia come “un modo di vivere” del magnate presidente, “cosa che non potevamo accettare”.
L’Amministrazione Trump ha ripetutamente messo in guardia Bolton dal far uscire le sue memorie, che, secondo indiscrezioni diffuse ieri dalla stampa Usa, hanno informazioni esplosive e riservate sulla Casa Bianca.
Le conversazioni di Trump con il presidente cinese Xi Jinping – scrive Bolton – “rispecchiano non solo l’incoerenza della sua politica commerciale ma anche la confluenza, nella testa del presidente, dei suoi interessi politici con gli interessi nazionali … Mi è difficile citare una decisione di Trump durante la mia permanenza alla Casa Bianca che non si stata dettata da calcoli per la rielezione”.
A Xi, il magnate, secondo Bolton, promise sconti di dazi se avesse acquistato prodotti agricoli Usa cruciali per la sua base elettorale. E, quando il presidente cinese acconsentì, lo definì “il più grande leader della storia cinese”, ignorando poi tutte le questioni relative ai diritti umani, dall’anniversario di Tienanmen alle persecuzioni degli uiguri.
Secondo Bolton, l’inchiesta sull’impeachment, risoltasi a febbraio con un’assoluzione, doveva riguardare non solo le pressioni sull’Ucraina perché indagasse sui Biden, padre e figlio, ma anche altri episodi in cui il magnate cercò di intervenire per ragioni politiche: non solo la richiesta di aiuto a Xi per essere rieletto, ma pure il desiderio di bloccare indagini criminali “per fare favori personali ai dittatori che gli piacevano”, citando casi di grandi aziende cinesi – Huawei e Zte – e turche.
La reazione di Trump alle indiscrezioni è molto dura: in interviste, definisce Bolton “un bugiardo” che “alla Casa Bianca era odiato da tutti” – era stato lui a portarcelo, dopo avere ‘bruciato’ due suoi predecessori; afferma che il libro viola la legge perché diffonde informazioni riservate e classificate e auspica che vi siano conseguenze penali per il suo ex collaboratore. E poi ripete un suo mantra: “Nessuno è stato più duro di me con la Russia e con la Cina”.
L’ex consigliere per la Sicurezza nazionale aveva firmato un accordo di riservatezza al suo ingresso alla Casa Bianca e aveva inizialmente sottoposto il manoscritto all’esame della presidenza. Ma aveva poi deciso di andare avanti per la sua strada, quando gli era stata chiesta una sfilza di omissis.
Le memorie di Bolton non sono accolte con unanime favore neppure dal campo avverso a Trump: molti considerano che l’ambasciatore avrebbe dovuto testimoniare nel processo d’impeachment, anziché trincerarsi allora dietro il parere contrario della Casa Bianca e intanto negoziare il contratto da due milioni di dollari per il volume.
Nel quale Bolton rivela anche altre circostanze imbarazzanti. Ad esempio che Trump non sapeva che la Gran Bretagna è una potenza nucleare, che chiese se la Finlandia fa parte della Russia e che arrivò più vicino a decidere il ritiro dalla Nato di quello che si sa – quella di ritirarsi è una decisione che prende di frequente: dagli accordi di Parigi sul clima, dall’intesa sul nucleare con l’Iran, dall’Unesco, dall’Oms, dagli accordi sul disarmo con la Russia -.
Bolton racconta che alcuni personaggi molti vicini al presidente gli ridevano dietro: ad esempio, durante l’incontro del 2018 tra Trump e il leader nordcoreano Kim Jong-un, il segretario di Stato Mike Pompeo gli passò una nota in cui c’era scritto “dice un sacco di cazzate”.
I briefing dell’intelligence erano inutili “perché molto del tempo era speso ad ascoltare Trump piuttosto che il contrario”. Al magnate piaceva mettere i membri del suo staff uno contro l’altro: così, raccontò a Bolton che l’ex segretario di Stato Rex Tillerson si riferì una volta all’allora ambasciatrice degli Usa all’Onu Nikki Haley con una oscenità sessista.
La polemica sul libro, probabilmente, non fa perdere, almeno per ora, elettori a Trump – nessuno dei suoi sostenitori lo leggerà -, ma i sondaggi più recenti confermano che il magnate arranca dietro il candidato democratico alla Casa Bianca Joe Biden. L’ultimo rilevamento Reuters-Ipsos dà Biden al 48% e Trump al 35%, confermando il calo del magnate dovuto all’effetto combinato di tre fattori: l’epidemia di coronavirus, la recessione dell’economia e la sua reazione alle proteste anti-razziste delle ultime quattro settimane.
Proprio l’epidemia di coronavirus ha raggiunto un risultato agghiacciante: ha ucciso più americani della prima guerra mondiale, dove ne caddero oltre 116 mila, e il doppio della guerra del Vietnam. Secondo i dati della John Hopkins University, mercoledì ci sono state 840 vittime, portando il totale a 117.717, mentre i contati sono oltre 2.163.000 – cifre alla mezzanotte sulla East Coast -.
Nonostante questo quadro, un giudice dell’Oklahoma ha respinto la richiesta di bloccare il comizio di Trump sabato a Tulsa, il primo dopo lo stop da pandemia, nel timore che esso possa alimentare un focolaio di contagi. A presentare l’istanza erano state due organizzazioni no profit e alcuni residenti immunodepressi e quindi più vulnerabili. I ricorrenti avevano chiesto al giudice d’imporre il rispetto delle misure di distanziamento sociale e l’uso della mascherina o di vietare il rally al Bok Center, che ha una capienza di quasi 20 mila posti.
Nonostante l’aumento dei contagi dall’inizio del mese, lo Stato dell’Oklahoma affida le restrizioni alla discrezione dei titolari delle varie attività. La campagna di Trump chiede a chi intende assistere al comizio di firmare una liberatoria contro eventuali cause a seguito di possibili contagi.