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Trump si fa il suo muro…di fronte alla Casa Bianca. Il punto di Gramaglia

Le posizioni assunte e le cose dette da Donald Trump, davanti all’ondata di proteste, anche violente, dopo la morte di George Floyd, un nero di 46 anni ucciso a Minneapolis dalla polizia il 25 maggio, creano divisioni e tensioni non solo nella società americana, ma anche nel fronte conservatore.

TRUMP SOTTO ACCUSA

E la passeggiata del presidente, lunedì scorso, 1 giugno, dalla Casa Bianca alla chiesa di St. John, dopo avere fatto sgomberare da Lafayette Square pacifici manifestanti con lacrimogeni e pallottole di gomma, induce l’American Civil Liberties Union, una delle maggiori organizzazioni per la difesa dei diritti civili, a fare causa a Trump e al ministro della Giustizia William Barr. La tesi è che abbiano violato i diritti costituzionali dei manifestanti fuori dalla Casa Bianca.

Sullo sfondo, resta virulenta – e potrebbe peggiorare, per gli assembramenti nelle proteste – l’epidemia da coronavirus: i dati della John Hopkins University indicano che ieri ci sono ancora stati altri mille morti. Il totale dei decessi era di 108.211 alla mezzanotte sulla East Coast e quello dei contagi superava 1.872.000. All’inizio delle cerimonie in ricordo di Floyd, ieri, a Minnneapolis, c’è stato chi ha chiesto “la fine della pandemia di razzismo” negli Usa.

TRUMP SI FA IL SUO MURO

La decima notte di cortei e manifestazioni è trascorsa con violazioni dei coprifuoco in molte città, ma senza violenze di rilievo. I media Usa stimano che gli arresti effettuati dall’inizio delle proteste superino i 10 mila. Di fronte alla Casa Bianca, su Pennsylvania Avenue, è stata eretta una palizzata davanti alla inferriata che la circonda. Il che ha scatenato sui social ironici commenti: “Trump vuole costruire un muro” al confine con il Messico per “proteggere gli americani e ne costruisce uno davanti alla Casa Bianca per proteggersi dagli americani”; o ancora “Il sogno di Trump di costruire un muro diventa realtà”.

CRITICHE GENERALI

Visto il clima, Trump ha cancellato – scrive Politico – il week-end previsto a Bedminster, sui campi da golf di sua proprietà nella cittadina del New Jersey. Le sortite critiche del capo del Pentagono Mark Esper, contrario a schierare l’esercito contro i manifestanti, e soprattutto del suo predecessore Jim Mattis lasciano il segno nel campo repubblicano.

La senatrice dell’Alaska Lisa Murkowski condivide le critiche del generale Mattis: “Le sue parole sono vere, oneste, necessarie e attese da tempo”. La senatrice, nota per l’indipendenza di giudizio rispetto alla linea del partito, risponde “faccio fatica, ho fatto fatica per molto tempo”, alla domanda se sostiene Trump per la rielezione.

Pure l’ex capo di staff della Casa Bianca, John Kelly, difende Mattis: “Non è vero che il presidente licenziò Mattis o ne chiese le dimissioni”, dice in un’intervista, smentendo la versione del magnate, da sempre controversa. “Il presidente s’è chiaramente dimenticato cosa successe o è confuso”. Mattis ha sempre sostenuto di avere dato lui le dimissioni nel 2018, in disaccordo con la decisione di ritirare le truppe dalla Siria.

Tagliente, via twitter, la replica di Trump: “Kelly non sapeva che avrei licenziato Mattis, né sapeva della richiesta di una lettera di dimissioni. Perché avrei dovuto dirglielo? Non era parte della mia cerchia ristretta, era esausto per il lavoro e, alla fine, è scivolato nell’oscurità. Tutti voglio tornare per avere un po’ di luci della ribalta”.

La vicenda di Floyd fa emergere sostrati razzisti nel partito repubblicano: una responsabile locale della Bexar County, in Texas – subito stigmatizzata dai vertici del partito, la definisce sui social “una messa in scena per nuocere a Trump”, ma crea tensioni anche in campo progressista.

IL CASO NEW YORK TIMES

Al New York Times c’è imbarazzo per la pubblicazione di un commento del senatore dell’Arkansas Tom Cotton in cui si chiede di “mandare le truppe” per sedare le proteste. Cotton, subito rilanciato da Trump su twitter, scrive: “La Nazione deve riportare l’ordine. I militari sono pronti”.

Nikole Hannah-Jones, che scrive sui temi dell’ingiustizia razziale e ha lanciato il progetto ‘1619’ sulla legacy della schiavitù, con cui il quotidiano ha vinto il premio Pulitzer, e molti altri giornalisti non hanno gradito la scelta editoriale. Oggi il Nyt fa marcia indietro: l’articolo di Cotton “non è all’altezza degli standard” del giornale.

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