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Anche le telco portoghesi voltano le spalle a Huawei

“La marea sta montando contro Huawei”, diceva impettito qualche settimana fa il segretario di Stato statunitense Mike Pompeo (che sarà in Repubblica Ceca l’11 e 12 agosto per incontrare il primo ministro, Andrej Babis, e parlare, in occasione delle commemorazioni per la fine della Seconda guerra mondiale, anche della sicurezza della tecnologia 5G). Gli altri membri dell’alleanza d’intelligence Five Eyes sono ormai allineati a Washington contro il colosso di Shenzhen e altri Paesi stanno prendendo le distanze dal gruppo cinese (Francia e Italia per citarne due). È notizia delle ultime ore, rivelata dalla Reuters, che il Portogallo, uno dei Paesi europei più amici della Cina e legati al Dragone da ingenti scambi commerciali, si sta riportando sulla rotta atlantica. Nos, Vodafone e Altice, cioè le tre società che dominano il mercato portoghese della telefonia mobile, hanno annunciato che non utilizzeranno la tecnologia Huawei nelle reti core della loro infrastruttura 5G.

Il tutto nonostante il governo non sia intervenuto con un bando al gruppo cinese (come suggerito dagli Stati Uniti ai loro alleati). Addirittura, a seguito del lavoro di una squadra di esperti per valutare i rischi legati al 5G, il ministro delle Infrastrutture, Pedro Nuno Santos, ha detto alla Reuters che “non ha problemi” a priori “con nessun produttore”.

LE AZIENDE PRIMA DEL GOVERNO

Un portavoce di Nos ha dichiarato che la società “non avrà apparecchiature Huawei nella sua rete core” e sceglierà i “migliori partner”. Vodafone Portugal ha spiegato che “Vodafone ha annunciato che la sua rete core 5G non includerà Huawei (…), quindi naturalmente Vodafone Portugal non fa eccezione”. E ancora: Vodafone Portugal “ha lavorato alla preparazione della sua rete 5G con il suo partner preferito e storico Ericsson”. A marzo l’amministratore delegato di Altice, Alexandre Fonseca, aveva annunciato la decisione di fare a meno di Huawei.

La mossa portoghese sembra in linea con gli inviti della Commissione europea, che ha suggerito agli Stati membri dell’Unione europea di adottare misure urgenti per diversificare i propri fornitori di 5G, una mossa, spiega la Reuters, “destinata a ridurre la presenza di Huawei in Europa”. Sulla stessa lunghezza d’onda è il recente annuncio dell’operatore telefonico francese Orange, deciso a ridurre in Europa l’utilizzo della strumentazione fornita da Huawei. Lo ha annunciato l’amministratore delegato di Orange, Stephane Richard: “In Africa la questione è molto meno sensibile e pertinente che in Europa”. Nel mercato europeo il gruppo di telecomunicazioni utilizza componenti Huawei in Spagna e in Polonia, ma non in Francia.

CONSEGUENZE E… CONSEGUENZE

Pechino non sembra aver ancora digerito il divieto imposto dal Regno Unito a Huawei (ma soltanto dal 2027, cioè l’anno prima per quale è atteso il lancio del 6G da parte di Samsung). L’ambasciatore cinese a Londra, Liu Xiaoming, ha più volte minacciato conseguenze davanti a una decisione simile. “Non facciamo minacce. Non minacciamo nessuno. Noi facciamo soltanto in modo che si conoscano le conseguenze”. E ancora: “Se non volete essere nostri partner e nostri amici, se volete trattare la Cina come un Paese ostili, ne pagherete il prezzo”.

“Conseguenze” minacciate anche dagli Stati Uniti al Brasile attraverso l’ambasciatore Todd Chapman. “Ogni Paese è responsabile delle sue decisioni”, ha affermato il diplomatico in un intervista al quotidiano OGlobo. Ma le differenze tra la retorica cinese e quella statunitense sono due. La prima: Pechino si muove in difesa di un’azienda cinese che però dichiara di non avere nulla a che fare con il governo; Washington si batte per evitare rischi per la sicurezza sua e dei suoi alleati e per spingere in particolare due aziende, la svedese Ericsson e la finlandese Nokia. La seconda: l’ambasciatore Chapman non si limita a evocare conseguenze (come fanno i gangster), bensì le illustra: “Le conseguenze che stiamo vedendo nel mondo sono che le aziende coinvolte nella proprietà intellettuale hanno paura di fare investimenti in paesi in cui la proprietà intellettuale non è protetta”.

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