Molto si è scritto dell’intesa – per adesso poco più di una promessa – fra Cina e Iran che dovrebbe far salire di livello le relazioni fra i due paesi. Assai meno si è scritto del recente e notevole avvicinamento dell’Iran all’orbita russa, culminato, un paio di anni fa, nella sigla di un accordo commerciale con l’Unione euroasiatica di Putin, al quale è seguita un’intensa attività diplomatica, sicuramente incoraggiata dall’essere entrambi nel mirino delle sanzioni Usa, che preannuncia una più stringente collaborazione fra i due paesi.
Il combinato disposto queste due eventi, purtroppo ancora poco analizzato, apre un nuovo capitolo in quella che abbiamo chiamato globalizzazione emergente. L’Iran, grazie a questa intensa attività diplomatica, di fatto si propone come interlocutore di peso a due dei tre “aggregatori” di questa globalizzazione – Russia, Cina e Turchia – concorrendo di fatto con quest’ultima alla costruzione di un equilibrio nel complesso mosaico mediorientale che abbiamo già visto all’opera nel nord dell’Iraq.
Di fatto l’Iran entra a gamba tesa – ammesso che già non ci fosse, e basta ricordare il caso Yemen e quello siriano – nel conflitto strisciante per l’egemonia fra i sunniti mediorientali che vede da una parte Turchia e Qatar e dall’altra Emirati Arabia, Arabia Saudita ed Egitto, che si declina lungo i vari fronti di guerra che vanno dalla Libia allo Yemen. E vi si interpone col peso specifico della sua invidiabile posizione geografica e delle sue risorse.
E’ presto per capire se il triangolo di interessi fra russi, cinesi e turchi che abbiamo immaginato diventerà un quadrilatero, includendovi anche l’Iran. Di sicuro la repubblica islamica ha una vocazione antagonista nei confronti degli americani. Ma non è detto che ciò sia sufficiente.
Per capirlo bisognerà osservare l’evoluzione del quadrante mediorientale, che si complica ogni giorno di più: si pensi all’intenzione dell’Egitto di impegnarsi in Libia. Ma anche quella del Mediterraneo Orientale, e della linea di faglia del Caspio meridionale. Non a caso tutti questi dossier sono finiti sul tavolo del Consiglio di sicurezza nazionale turco convocato da Erdogan, ormai chiaramente compreso nel suo ruolo di sultano della potenza emergente della regione, al quale probabilmente ha contribuito anche una certa compiacenza statunitense.
Turchia a parte, ciò che più conta è capire come queste promesse di collaborazione fra russi, cinesi e iraniani diventino fatti concreti. E seguire i soldi – che in questa partita significa innanzitutto osservare lo sviluppo delle infrastrutture – è un ottimo punto di osservazione.
La capacità dell’Iran di servire alla globalizzazione emergente, infatti, è e sarà direttamente proporzionale alla sua funzionalità nella costruzione di rotte, commerciali e quindi anche finanziarie, che siano capaci di concorrere con quelle tradizionali dominate dagli Usa. Rotte che siano utili innanzitutto ai cinesi, che ci mettono il denaro, ma anche ai russi e in qualche modo anche ai turchi.
Un esempio è sempre meglio di mille ragionamenti. Quasi un anno fa gli iraniani annunciarono di voler creare un terminal petrolifero nel mare dell’Oman per costruire una rotta alternativa a quella che li obbliga a usare lo stretto di Hormuz, uno dei tanti colli di bottiglia sensibili della nostra globalizzazione, sulla quale far viaggiare il proprio greggio. Una necessità non solo iraniana, ma anche cinese, visto che da Hormuz passano milioni di barili destinati anche a Pechino. L’oleodotto, annunciava all’epoca l’agenzia iraniana Irna, avrebbe portato il greggio da Goreh a Busher, fino al porto di Jask, in predicato di diventare il secondo terminal petrolifero iraniano.
Un anno dopo siamo arrivati all’accordo con i cinesi, dove il porto di Jask riveste una certa importanza. Nei documenti dell’accordo circolati fra la stampa si legge che la Cina investirà 400 miliardi in Iran, dei quali 280 nell’industria del petrolio e 120 per lo sviluppo infrastrutturale, fra le quali il 5G ma anche i porti e in particolare quello di Jask, la cui importanza si può intuire osservando la sua posizione.
Notate che Jask sarebbe in terzo porto, insieme a Chabahar e a quello pakistano di Gwadar, capace di funzionare da terminal per il petrolio destinato all’Asia. Degli ultimi due abbiamo già osservato le vicissitudini. Chabahar, in particolare, riveste una importanza duplice, non solo perché inserito nel progetto russo del North-South Transport Corridor, (NSTC), ma anche perché coinvolge direttamente l’India.
Lo sviluppo del porto di Jask ha una duplice valenza per Iran e Cina. Da una parte facilita le loro transazioni petrolifere, dall’altra apre uno scenario complesso con l’India di fronte a un bivio: mantenere il suo attuale sistema di alleanze, che potremmo esemplificare ricordando il Quad indopacifico, o inserirsi maggiormente nel triangolo, o quadrilatero che sarà, emergente.
Avere la disponibilità del porto pakistano di Gwadar, inoltre, mette ulteriormente in sicurezza i movimenti commerciali cinesi, che comprano petrolio sia dai sauditi, con i quali di recente hanno festeggiato i trent’anni di relazioni diplomatiche, che dagli iraniani, nemici storici dei sauditi, in omaggio al vecchio adagio che il denaro non ha odore. E neanche religione, potremmo aggiungere.
In sostanza, l’Iran, forte soprattutto della sua geografia, ma anche delle sue risorse umane e materiali, è capace di offrire un contributo importante alla saldatura dello zoccolo meridionale dell’Eurasia, e quindi della nostra globalizzazione emergente, con l’Afghanistan a coprire l’ultimo miglio della grande catena di forniture ai cinesi.
L’India può partecipare oppure no, a questo gioco. Ad esempio raccontano che dopo l’accordo fra Iran e Cina l’India sarebbe stata esclusa dal progetto iraniano della ferrovia Chabahar-Zahedan di 628 km, che dovrebbe essere estesa a Zaranj in Afghanistan. Ciò per dire che le fisionomie di questa partita sono ancora in corso di evoluzione e contengono numerose zone d’ombra. Ma il gioco ormai è cominciato.
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