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Armi russe nello Spazio? Ecco cosa dice il diritto (spaziale)

Di Andrea Capurso

È di questi giorni la notizia che il satellite russo Kosmos 2543 ha rilasciato in orbita in prossimità di un altro satellite, anch’esso operato dalla Russia, un oggetto con le caratteristiche di un’arma. Si tratterebbe – sostiene lo U.S. Space Command – di una manovra per testare una tecnologia anti-satellitare non-distruttiva che opera completamente in ambiente extra-atmosferico.

Non è la prima volta che vengono portati a termine test di questo tipo. Sempre la Russia aveva realizzato un’operazione simile utilizzando l’intercettatore Nudol ad aprile di quest’anno, ma anche altre Nazioni come Cina (2007) e India (2019) hanno dimostrato le loro capacità anti-satellitari (o ASAT) con test ad arma cinetica (ossia abbattendo propri satelliti in orbita). La peculiarità dell’ultimo test russo è tuttavia l’utilizzo di una manovra interamente condotta in orbita, da satellite a satellite.

La faccenda ha suscitato forte preoccupazione nella comunità internazionale, che fin dagli albori dell’esplorazione spaziale teme una corsa alle armi nello Spazio.

Space Pearl Harbor” è l’espressione utilizzata dalla dottrina militare statunitense per descrivere con enfatica brevità la minaccia di un attacco ai sistemi satellitari, che può verificarsi in caso di situazioni di crisi o di conflitto tra Nazioni. Ed è vero che in ogni Stato con capacità satellitare, le forze armate dipendono profondamente dalle tecnologie spaziali che, per l’efficiente esecuzione delle loro operazioni, forniscono servizi di comunicazione, navigazione GPS, previsioni meteo o telerilevamento. Ma non solo. Sono oltre 2000 i satelliti attivi che avvolgono oggi il nostro pianeta in un nido intricato di orbite. Sono essenziali nel campo delle telecomunicazioni, dei servizi finanziari, di internet, della geolocalizzazione.

Come è evidente, dunque, colpire l’infrastruttura spaziale di un Paese vorrebbe dire colpirne le capacità militari e finanziarie, con immediate ripercussioni gravi e irreparabili per la sicurezza e la stabilità sociale ed economica. Da qui, la necessità di difendere questi cruciali asset extra-atmosferici.

Ma in questa quotidiana escalation, cui stiamo tutti assistendo, cosa dice il diritto spaziale sulla liceità di operazioni militari come i test ASAT russi?

La risposta si trova nell’“Outer Space Treaty” del 1967 – generalmente riconosciuto come la ‘Magna Charta’ del diritto spaziale. La sua elaborazione, così come quella della gran parte degli strumenti normativi internazionali sul tema, risale agli anni della Guerra Fredda e rispecchia i timori e le tensioni dell’epoca.

Il tema della militarizzazione dello Spazio ha così assunto una posizione centrale nella struttura del Trattato. Ad esempio, è interessante notare che la parola “pace/pacifico” compare nel testo undici volte, contro le sei della parola “scienza/scientifico”.

Da un punto di vista più concreto, l’attenzione va posta sull’Articolo IV che stabilisce i principi guida per gli usi militari dello spazio extra-atmosferico.

Nel primo comma viene sancito un divieto avente ad oggetto armi nucleari e armi di distruzione di massa (WMD) nello Spazio. Tuttavia, il divieto è limitato a due specifiche azioni: “place in orbit” (collocare in orbita) e “station in outer space” (stazionare/insediare nello Spazio). Ciò vuol dire che rientrano nella disposizione solo utilizzi connotati da un certo grado di stabilità. Così, ad esempio, il semplice passaggio attraverso lo Spazio di testate nucleari (come nel caso di ICBMs) non costituisce violazione dell’Articolo IV. Ma soprattutto le armi oggetto di divieto sono esclusivamente armi nucleari e WMD, ossia le armi che suscitavano maggiori preoccupazioni al tempo dell’adozione dell’Outer Space Treaty. Restano così escluse le armi convenzionali e gli altri tipi di arma sviluppati nell’ambito dei settori di ricerca spaziale militare, lasciando quindi la porta aperta anche a sistemi d’arma anti-satellite.

Il secondo comma dell’Articolo IV esordisce stabilendo l’obbligo di utilizzazioni a fini esclusivamente pacifici. Tuttavia, il suo ambito di applicazione è limitato alla Luna e agli altri corpi celesti. Ne resta escluso, dunque, lo Spazio inteso come il vuoto tra i corpi celesti, dove orbitano satelliti e viaggiano navicelle. Solo i primi ambienti sono oggetto di una completa demilitarizzazione, mentre per il secondo non vi è un espresso dovere di uso pacifico. Vale però anche qui l’obbligo per gli Stati Membri di astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza e di utilizzare ed esplorare lo Spazio nell’intento sia di mantenere la pace e la sicurezza internazionale sia di promuovere la cooperazione e la comprensione fra gli Stati (Art. III, Outer Space Treaty).

In definitiva, attraverso una lettura in filigrana dell’Articolo IV emergono pochi elementi in grado di porre limiti legali alla scelta di una Nazione di sviluppare e testare sistemi ASAT.

Bisogna però aggiungere due considerazioni. L’Outer Space Treaty impone anche obblighi di trasparenza, che si sostanziano – ai sensi degli Articoli IX e XI – in doveri di informazione e di consultazione “nella misura del possibile e del realizzabile” con la comunità internazionale da parte dello Stato che intenda condurre attività potenzialmente pericolose per gli asset spaziali di altre Nazioni. Non solo. L’Articolo IX sancisce anche il principio di “dovuto rispetto per gli interessi degli altri Stati partecipi del Trattato”. Si ritiene dunque che operazioni che possano compromettere l’ambiente extra-atmosferico – attraverso ad esempio la creazione di detriti – debbano essere evitate.

Non si tratta certo di stringenti regole che possano negare la liceità dei convenzionali test ASAT, ma vanno lette come norme di condotta che possono facilitare il dialogo tra le Nazioni. Nel 2008, ad esempio, gli Stati Uniti distrussero un proprio satellite malfunzionante informando però anticipatamente la comunità internazionale dell’operazione e delle modalità di abbattimento, e facendo sì che i detriti prodotti si dissolvessero nel giro di poche settimane.

La rilevanza del dialogo tra Nazioni va vista alla luce dell’evoluzione del diritto spaziale, una volta tramontata l’era della Guerra Fredda. Abbandonati gli accordi internazionali, l’alternativa è divenuta la normazione di soft law, con misure di trasparenza e di confidence-building, come codici di condotta, report, risoluzioni dell’ONU e best-practices.

L’ultimo tentativo di un accordo internazionale sulle attività dell’uomo oltre l’atmosfera ha avuto ad oggetto proprio il posizionamento di armi nello Spazio. Si tratta di una proposta russo-cinese presentata alla Conferenza sul Disarmo nel 2008: il “Trattato sulla Prevenzione del Posizionamento di Armi nello Spazio” (PPWT). Nonostante fin dalla sua presentazione si sia cercato di elaborare un testo che potesse trovare l’accordo dei diversi attori in gioco, il progetto è ancora in cantiere. Non si sono infatti superati argomenti di scontro come l’inclusione dei sistemi ASAT nei divieti sanciti dal trattato; la discussione sull’ambito di applicazione delle regole, ossia se debba essere limitato al solo utilizzo di armi oppure anche al loro possesso; la possibilità per una Nazione di sperimentare e produrre armi spaziali; e infine, il regime di verifica sul rispetto degli obblighi pattizi.

Così ad oggi i limiti imposti dal diritto spaziale ai test ASAT – specialmente se attuati con manovre di prossimità come nel caso del Kosmos 2543 – sono molto pochi e principalmente legati a norme di condotta e agli effetti ambientali della distruzione di satelliti in orbita. Questo è dovuto al fatto che gli usi militari dell’ambiente extra-atmosferico – resi possibili dai più recenti sviluppi tecnologici – si svolgono in una cornice legale che a fatica regge il passo della scienza. Alla lentezza con cui il diritto, specialmente di matrice pattizia, evolve, si contrappone la rapidità con cui le tecnologie spaziali avanzano, creando inesorabilmente una rischiosa discrasia tra la struttura normativa e la realtà dell’agire umano oltre l’atmosfera.

L’architettura del diritto militare spaziale ha visto generarsi e moltiplicarsi i trattati, le norme, gli orientamenti, ma gli effetti non sempre sono stati apprezzabili. La dialettica tra guerra e pace impone dunque di lavorare ancora, per arrivare a un quadro di garanzie sempre maggiori che vadano senza equivoci nella direzione del dialogo, del rispetto e degli equilibri tra le Nazioni. Oggi, per parafrasare il britannico Charles Spurgeon, il “principe dei predicatori” di un secolo e mezzo fa, potremmo dire che “mentre le guerre fanno il giro del mondo, la pace si sta ancora infilando le scarpe”. Se è così, la velocità del diritto dovrà invece permettere alla pace e, meno prosaicamente, alle norme che la favoriscono, di correre più velocemente della guerra, per precederla, allontanarla e prevenirla.

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