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Usa2020, Biden vs Trump e la tempesta perfetta

Di Lucio Martino

Con l’approssimarsi delle elezioni generali, è ormai tempo di distinguere tra gli eventi dall’impatto effimero e le dinamiche che realmente incideranno sul risultato finale. Posto che politici e giornalisti condividono una per molti versi inevitabile propensione all’iperbole, seconda solo alla velocità con la quale saltano da un evento all’altro, sulla base di quanto è stato detto e scritto nelle scorse settimane, si potrebbe ragionevolmente concludere che la questione razziale sarà determinante per il risultato della prossima tornata elettorale. Tuttavia, mancano ancora quattro mesi al giorno in cui gli Stati Uniti andranno alle urne. Nel frattempo, l’unica certezza è che di nuovi eventi se ne verificheranno altri. Solo quattro mesi fa, forte e diffuso era il consenso che la questione elettoralmente più importante, se non del tutto definitiva, sarebbe stata l’economia. Da allora, e fino alle recenti proteste razziali, lo stesso consenso si è coagulato intorno alla necessità, ed eventualmente al modo, con il quale contenere la pandemia. In effetti, in appena sei mesi l’idea di massima sulla dinamica che più di ogni altra condizionerà il risultato elettorale è cambiato di ben tre volte.

Ad oggi, sembra ragionevolmente certo che il presidente Donald Trump intravede ancora nell’economia il fattore centrale della sua eventuale rielezione. Come del resto dimostrato dall’enfasi con la quale ha accolto prima i dati relativi alla ripresa dell’occupazione del mese di maggio e poi di giugno. In ogni caso, è certo che il presidente Trump non esiterà a sfruttare spregiudicatamente qualsiasi altro evento abbia in serbo il destino qualora mai ne percepisse un vantaggio, specialmente se in grado di fomentare un base elettorale che non si deve identificare strettamente con quella del Partito Repubblicano. E questo con l’obiettivo di costringere il suo rivale a una campagna elettorale di rimessa, nella quale quest’ultimo sia, suo malgrado, costretto a porre in secondo piano ogni suo messaggio per così dire positivo.

Da parte sua, l’ex vicepresidente Joe Biden sembra credere che la “tempesta perfetta” causata dall’intrecciarsi degli effetti della pandemia con quelli delle controversie razziali, incoraggerà una grande affluenza alle urne tra gli elettori neri e quelli genericamente più giovani che da ultimo hanno affollato le strade delle principali città. Cosa questa tanto apparentemente critica per il risultato elettorale quanto però insolita nella tradizione politica statunitense. Sotto questo punto di vista, sono due i fattori che sembrano in questo momento giocare a favore dello sfidante democratico. Il primo è costituito dallo sproporzionato impatto che la pandemia ha avuto e continuerà ad avere sui neri. Il secondo è rappresentato da un tasso di disoccupazione che, nonostante la recente ripresa, tra i neri è rimasto sensibilmente più alto che tra i bianchi. Ne consegue che, per capitalizzare sugli ultimi eventi, il Partito Democratico e in particolare il vicepresidente Biden, hanno bisogno di rimanere saldamenti su questi stessi messaggi in un paese i cui Media bruciano ogni evento con una rapidità sempre maggiore.

Per quanto chiara la flessione del sostegno prestato dai neri al Partito Democratico nelle elezioni del 2016, non si deve dimenticare che l’ex senatrice Hillary Clinton ha comunque vinto il voto popolare, che lo ha vinto con l’aiuto di tutte le principali minoranze e che ha decidere l’identità dell’inquilino della Casa Bianca non fu il voto popolare, ma l’esito del Collegio Elettorale in sei stati che risposero a logiche strettamente legate all’andamento dell’occupazione, per la precisione quattro in un Nord dalla vecchia tradizione industriale (Michigan, Ohio, Pennsylvania e Wisconsin) e due in un Sud in rapida crescita economica (Florida e North Carolina). Non a caso, tutti e sei questi stati registrarono un incremento del numero dei bianchi che andarono alle urne proporzionalmente superiore a quello di qualsiasi altro gruppo. Sempre da non dimenticare è poi il fatto che la maggior parte delle mobilitazioni popolari di questo periodo si sono verificate all’interno di stati dalla lunga e sicura tradizione democratica, più che in quegli stati dall’assetto politico così oscillante da restare aperti, oggi più che mai, a qualsiasi risultato.



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